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Riporto di seguito la traduzione dell’articolo a firma di Ariel Swartz, intitolato “The collaborative Economy is exploding, and brands that ignore it are out of luck”. Qui il testo originale.

La cosiddetta “economia collaborativa” sta avanzando, perché sempre più persone decidono di condividere i propri beni, servizi, fondi, trasporti e altro ancora. E i marchi che non si adatteranno presto a questo nuovo fenomeno rischiano di rimanere indietro.
Questo è il succo di “Sharing is the New Buying”, un’occhiata su larga scala a tutti i soggetti coinvolti nell’economia collaborativa. Una collaborazione tra il marchio Crowd Companies,Jeremiah Owyang, and Vision Critical, una piattaforma online dedicata alle comunità di consumatori. Una ricerca condotta tra più di 90.000 persone in Usa, Gran Bretagna e Canada, per capire come e perché le persone partecipano a questo movimento in continua crescita.

Le vittime non denunciano ma sempre più cybercriminali colpiscono le aziende e presto gli smartphone.

«L’Italia non ha statistiche ufficiali, e le vittime tacciono». Insomma, nel Belpaese sempre più connesso e interconnesso alla Rete, anche per motivi aziendali, il cybercrime esiste, si subisce, ma non si dice. Il tipico scenario che permette il proliferare indisturbato di qualsiasi tipo di criminalità, salvo poi iniziare a parlarne e provare a controbattere alla minaccia quando ormai il terreno perduto diventa decisamente troppo. «Diversamente da altri Paesi europei, non sono purtroppo disponibili statistiche ufficiali in merito ai danni economici provocati dagli attacchi informatici, sia perché le vittime hanno un’oggettiva difficoltà culturale, organizzativa e tecnologica nel riconoscere di aver subito un attacco, sia perchè vige ancora una generalizzata riluttanza a denunciare di aver subito un attacco». Così Andrea Zapparoli Manzoni, membro del Comitato Direttivo del Clusit (Associazione per la Sicurezza Informatica), lo scorso 6 marzo ha riassunto la situazione italiana. Basti pensare che dei 1.152 attacchi analizzati da Clusit nel 2013 solo 35 si riferiscono a bersagli italiani: «Una cifra», spiegano dall’associazione, «dovuta alla cronica mancanza di informazioni pubbliche in merito, e, in misura minore, al fatto che le organizzazioni in Italia spesso non hanno ancora gli strumenti organizzativi e tecnologici per rendersi conto di essere state compromesse».

Stranieri e disabili hanno più difficoltà a trovare un impiego. Le denunce soprattutto al Nord.
 

In un momento di crisi, il lavoro non piove certo dal cielo. Se poi, oltre alla crisi, un candidato viene anche discriminato perché è troppo giovane o troppo anziano, o perché è omosessuale, la frittata è fatta. Secondo i dati raccolti dall’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, seppure in diminuzione rispetto al 2012, nel 2013 la percentuale di discriminazioni in un contesto lavorativo rimane comunque alta (16%), al terzo posto dopo mass media (26,2%) e vita pubblica (21,1%). E avviene soprattutto per via dell’età.

«Dalle notizie che arrivano dal nostro contact center», dice Marco Buemi, referente dell’Unar, «il mondo del lavoro è sempre stato un ambito di forte discriminazione». Eppure, rispetto allo scorso anno, c’è stato un dimezzamento delle denunce, dal 35 al 16 per cento sul totale. Il perché lo spiega Buemi: «Il 2012 è stato un anno nero, e questo si può spiegare con l’aumento delle denunce nel mondo pubblico, essendo in vigore ancora regi decreti del 1935 che vietano alle persone straniere la possibilità di partecipare ad alcuni concorsi nell’ambito dei trasporti pubblici o del settore infermieristico. C’è stata una forte propensione a denunciare, che ha portato a raddoppiare il numero delle denunce totali nel mondo del lavoro rispetto al 2011. Ma la diminuzione di quest’anno si può spiegare anche con il lavoro di numerose associazioni e organizzazioni che sul territorio si sono fatte promotrici di concrete azioni positive di integrazione e sensibilizzazione nel mondo del lavoro». In ogni caso, «si tratta di una questione di pesi e di misure. Diminuisce la percentuale di denunce sul lavoro, aumenta quella sui mass media». Il numero più alto di denunce, oltre il 65%, arriva dal Nord Italia. Questo perché, spiega Buemi, «il mondo del lavoro dell’Italia settentrionale, maggiormente inquadrato nella regolarità, risulta più sensibile. Al Sud invece, in un mercato del lavoro anche più colpito dalla crisi, esistono maggiori irregolarità e le persone denunciano molto meno».

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