La partecipazione all’attività economica è una delle dimensioni essenziali dell’uguaglianza di genere. Interagendo con gli altri aspetti della parità - l’educazione,  la partecipazione politica, la salute - è fondamentale per favorire una uguaglianza effettiva, sostanziale.  Ma in anni recenti il tema della presenza delle  donne nell’economia viene sempre più analizzato anche con riferimento al contributo che essa può dare allo sviluppo. L’attenzione ha tratto impulso dall’attuale necessità di rafforzare la crescita economica anche nelle economie avanzate, osserva Anna Maria Tarantola, Vice Direttore Generale di Bankitalia.

La rilevanza economica di una maggiore presenza femminile nell’economia.Numerosi studi evidenziano, anche se è complesso da dimostrare in modo rigoroso, che la valorizzazione del contributo delle donne nei sistemi economici ha effetti positivi sulla crescita e sulla produttività: 

L’aumento del tasso di occupazione femminile influenza positivamente il PIL. Nel nostro Paese, ad esempio, il conseguimento dell’obiettivo del Trattato di Lisbona di un tasso di occupazione femminile al 60 per cento comporterebbe, secondo stime della Banca d'Italia, un aumento del PIL fino al 7 per cento anche tenendo conto del fatto che un ingresso così massiccio di forza lavoro potrebbe avere un effetto negativo sulla produttività di 0,3 punti percentuali, sottintendendo l’espansione di attività a più basso valore aggiunto e l’ingresso della componente meno qualificata della forza lavoro. Qualora il tasso di occupazione femminile eguagliasse quello maschile in ciascuna ripartizione geografica si avrebbe – con riduzione della produttività un aumento di 12 punti; un azzeramento dei divari territoriali porterebbe a una crescita di 4 punti.

Una maggiore partecipazione economica femminile riduce il rischio di povertà: la presenza di due redditi invece che di uno rende la famiglia  meno vulnerabile a fronte di eventi avversi, migliora la situazione di benessere, con un  conseguente aumento dei  consumi; una attività lavorativa svolta con continuità tutela la donna single dal rischio di povertà in età avanzata.

Il reddito delle donne contribuisce anche alla crescita della  massa fiscale e previdenziale e incentiva la domanda di servizi, in particolare di quelli di cura alle persone, con conseguente ulteriore aumento dell’occupazione. 

Secondo diversi studi una maggiore presenza femminile nelle imprese, specie al vertice, sarebbe associata a migliori performance e a un minore  rischio di default dell’impresa. Un recente indagine francese ha mostrato che le imprese con  più donne nel board hanno una migliore performance in Borsa. Nello studio si compara l’andamento delle quotazioni delle azioni del  gruppo bancario BNP Paribas, dove il 39 per cento dei manager è donna, con quella di Credit Agricole, dove lo è solo il 16 per cento. Nel 2008 la prima banca ha sperimentato un calo del valore delle proprie azioni del 39 per cento, la seconda del 62 per cento. Negli Stati Uniti la diversità di genere nei board sembra avere un impatto positivo sulla performance aziendale per le imprese con governance debole, grazie a una più intensa attività di monitoring delle donne. Una ricerca della McKinsey evidenzia che a una maggiore presenza femminile nella dirigenza si associano risultati migliori sul piano organizzativo, economico e finanziario.  Analisi condotte su dati italiani mostrano come, a parità di  alcune caratteristiche relative all’azienda (settore di attività economica, dimensione, localizzazione geografica, struttura del Consigli di Amministrazione, variabili anagrafiche del “capo”), le società di capitale medio grandi un maggior numero di donne nei CdA  presentano una migliore performance e un minore rischio di default dell’impresa; i fallimenti sono meno frequenti nel caso di imprese con un CdA a prevalente presenza femminile.  Queste evidenze,  pur non presentando una interpretazione rigorosa del nesso causale, offrono utili elementi di riflessione.

E’ in generale vero che le profonde trasformazioni del mercato del lavoro, soprattutto nelle economie più avanzate, rendono oggi il contributo femminile ancora più significativo. Nel nuovo scenario globale, nella società della conoscenza, dei servizi, del web, della new economy, assumono maggiore rilievo ai fini della produzione di ricchezza l’intelligenza sociale, la capacità di mediare, di integrare una pluralità di schemi mentali differenti, di comunicare e saper ascoltare. In questo contesto, abilità  tipicamente femminili – prudenza, attenzione, diplomazia e capacità relazionali - che fino  a qualche anno fa rappresentavano i maggiori ostacoli alla carriera delle donne, in quanto sinonimo di mancanza di ambizione e di aggressività – sono oggi fattori di successo delle aziende. Società di head hunter segnalano una crescente domanda, da parte delle imprese impegnate in processi di  ristrutturazione o di riposizionamento strategico, di dirigenti donne le cui caratteristiche sono considerate particolarmente idonee a gestire il cambiamento.

Nelle economie emergenti poi – e forse non solo – è sempre più vero che un maggiore potere economico delle donne assicura un  più alto benessere dei figli. E’ la componente femminile della famiglia che investe di più nella salute  e nella educazione delle  generazioni successive, assicurando tra l’altro minore discriminazione verso le figlie femmine. L’operare dell’insieme di questi effetti fa sì che l’occupazione femminile attivi un circolo virtuoso che genera, oltre a maggiore  reddito, anche occupazione e  imprenditoria aggiuntiva e l’affermazione di una gestione  più orientata ad una visione  di lungo periodo. Una maggiore presenza delle donne nel mondo del lavoro e nelle posizioni apicali è quindi un obiettivo strategico per ogni policy maker, assicura effetti positivi per il sistema economico in termini di efficienza e, in ultima analisi, di maggiore crescita. 

La situazione italiana: arretrata…Nonostante alcuni progressi, la situazione italiana presenta ancora ampi margini di miglioramento. Il posizionamento nel global gender gap ci vede al 74° posto (97° per la componente relativa alla partecipazione economica). Le nostre ospiti di oggi si collocano in una posizione più lusinghiera: la Cina è infatti al 61° posto (addirittura al 46° con riferimento alla partecipazione economica).

Il tasso di occupazione femminile - pari a luglio 2011 al 46,3 per cento - è ancora di circa 22 punti percentuali inferiore al corrispondente maschile e lontano dall’obiettivo del trattato di Lisbona. Permangono differenze significative per  età e tra aree geografiche; le donne sono sovrarappresentate nelle tipologie contrattuali a bassa remunerazione e nelle forme di lavoro atipico. Il conseguimento, nell’ambito della strategia Europa 2020, del traguardo nazionale di un tasso di occupazione delle persone di età tra 20 e 64 anni al 67-69 per cento sarà possibile solo con un forte incremento del tasso di occupazione femminile.

I vertici: la presenza nelle posizioni apicali è in crescita ma i livelli restano bassi; la situazione è migliore nel settore pubblico che nel privato. Le donne che a fine 2009 sedevano nei consigli di amministrazione delle società di capitale

italiane private erano in media poco più del 14 per cento del totale. Si concentrano soprattutto tra le imprese di minore dimensione a prevalente conduzione familiare: la quota femminile era solo l’8,3 per cento tra le società con fatturato superiore ai 200 milioni. Raramente le donne riescono ad assumere la carica più importante  (amministratore delegato o - in sua assenza - presidente del consiglio di amministrazione). Il problema sembra essere in parte di natura generazionale; infatti tra i “capi” più giovani -  meno di 35 anni - la presenza delle donne è maggiore, e di massa critica: dove vi è una  maggiore presenza femminile, più donne stanno arrivando ai vertici. Nel settore pubblico la situazione è migliore: a una quota di occupati donne molto elevata (superiore al 50 per cento) corrisponde una percentuale di dirigenti donne più alta che nel privato, specie tra le giovani (meno di 44 anni), pari al 45 per cento.Resta assai contenuta la presenza nei CdA delle società quotate: nel 2011 le donne erano il 7,1 per cento.

L’imprenditoria femminile: secondo i dati delle Camere di commercio a giugno 2010 il 23,3 per cento delle imprese attive è da considerarsi femminile. Per la maggior parte, si tratta di imprese individuali (61 per cento) e di società  di persone (22,8 per cento) con una presenza prevalente nel settore dei servizi, in particolare dell’ospitalità (dove il tasso di femminilizzazione è del 32 per cento), della sanità e assistenza sociale (41 per cento) e dell’istruzione (32 per cento). Dal punto di vista territoriale, la presenza di imprese femminili risulta concentrata in Lombardia (13,5 per cento), Campania (10,3 per cento) e Sicilia (8,2 per cento).

. .. ma in miglioramento. E tuttavia questa fotografia non evidenzia i cambiamenti che vi sono stati, più lenti in alcune aree, più rapidi in altre.

Nell’istruzione  i miglioramenti sono stati rilevantissimi, la popolazione femminile ha colmato il divario rispetto a quella maschile. Nelle classi di età più giovani (24-34 e 35-44 anni) le donne risultano in media più istruite (si laureano più velocemente, con voti in media superiori, in quasi tutte le discipline). La specializzazione femminile sta mutando; mentre le donne laureate con più di 44 anni si concentravano particolarmente nelle discipline umanistiche, le generazioni più giovani  (con meno di 44 anni) hanno cominciato a prediligere discipline scientifiche. 

Nel  mercato del lavoro: il progresso vi è stato, ma non in linea con quello di scolarizzazione. Il miglioramento è stato decisamente maggiore nel nord del paese, dove il tasso di occupazione è pari a circa il 56 per cento; è ancora del 30 per cento al sud. Il divario con il tasso di occupazione maschile, pari a 31 punti nel 1993, si è ridotto a 22 punti, ma è ancora elevato. Non mostra variazioni il tasso di imprenditorialità femminile (stabile intorno al 22 per cento dal 1993).

Ai  vertici la crescita è lentissima: nei CdA delle società quotate siamo passati dal 4,5 per cento nel 2004 al 7,1 nel 2011. Con questo tasso di crescita ci vorrebbero oltre 20 anni per raggiungere il 30 per cento. La recente legge in materia di “quote di genere” nei consigli di amministrazione delle società quotate si propone di accelerare questo processo. La sua attuazione potrebbe modificare  in misura significativa gli equilibri complessivi ai vertici delle nostre maggiori società.  Le donne che raggiungono posizioni manageriali sono oggi mediamente più giovani e più istruite rispetto agli uomini, e hanno quindi anche un’anzianità inferiore nei rispettivi ruoli. Da una ricerca condotta per conto di Federmanager su circa 1000 dirigenti (337 donne e 623 uomini), emerge che il 44,5 per cento delle donne ha meno di 45 anni (contro il 29,4 per cento degli uomini) e il 27,6 per cento ha un titolo superiore alla laurea (contro il 10,2 per cento degli uomini). Le donne soffrono peraltro di uno svantaggio in termini di retribuzione del 12 per cento circa. Vi è una significativa convergenza, nei giudizi espressi da uomini e donne, su alcune caratteristiche delle dirigenti donne:  buona preparazione, elevata motivazione, determinazione, impegno costante. Le donne dirigenti tendono a essere in misura maggiore “single” (11,2 per cento, contro 3,1 per cento degli uomini), separate o divorziate (11,8 per cento contro 5,9); hanno figli in percentuali inferiori rispetto ai colleghi uomini (65,9 per cento contro  oltre l’85). Questi dati confermano come l’investimento in percorsi professionali di forte crescita può comportare pesanti rinunce a soddisfazioni su altri piani. 

Le cause. Perchè questo divario tra i progressi nel campo  dell’istruzione e i risultati nel mercato del lavoro? Vi sono in Italia ancora oggi ostacoli profondi – che sono stati affrontati, considerati,ma non ancora eliminati – che impediscono alla componente femminile di sfruttare appieno le nuove maggiori competenze.

Il primo è il problema della conciliazione. Il confronto internazionale sottolinea come questo rappresenti uno degli ostacoli principali a reali cambiamenti del ruolo della donna nel sistema produttivo. La rilevanza della conciliazione spazio-temporale emerge in tutta la sua evidenza in Italia ove si consideri che il nostro paese presenta uno dei più forti squilibri nel tempo dedicato da uomini e donne al lavoro domestico e di cura. Secondo l’ultima indagine dell’Istat sull’”uso del tempo” all’interno delle famiglie, la percentuale del lavoro familiare a carico delle donne, nonostante progressi registrati negli ultimi 20 anni, è ancora molto elevata, superiore al 76 per cento. In questa situazione, una maggiore disponibilità di strutture e strumenti per la cura di bambini e anziani è fondamentale. La frequenza degli asili, tra l’altro, come evidenziato da una ricerca della Fondazione Giovanni Agnelli ha un effetto positivo  sui successivi risultati scolastici, più che compensando per l’assenza della madre lavoratrice. Utili strumenti di conciliazione sono anche la flessibilità oraria e il telelavoro che, dove attivati, si sono dimostrati molto efficaci, specie se utilizzati in modo trasversale, non solo dalle donne. 

La partecipazione femminile è anche influenzata dal sistema di imposizione fiscale. Il potenziale conflitto tra l’esigenza di sostenere il reddito delle famiglie numerose, specie se a basso reddito, e l’ampliamento dell’occupazione femminile è, in una valutazione a parità di gettito, meno forte in alcuni sistemi fiscali che in altri. Anche un sistema apparentemente

neutrale come quello vigente in Italia può disincentivare l’occupazione delle donne sposate, in quanto il loro eventuale salario, accrescendo il reddito familiare, può comportare il venir meno per il marito delle detrazioni per carichi familiari e degli assegni per il nucleo familiare. Per attenuare questo potenziale conflitto alcuni paesi hanno adottato schemi di tassazione in cui viene riconosciuto alla donna, o alla famiglia dove entrambi i coniugi sono occupati, anche con contratti a tempo parziale, un credito d’imposta per carichi familiari che diventa untrasferimento monetario diretto nel caso di incapienza dell’imposta dovuta (ad esempio, l’Earned Income Tax Credit negli Stati Uniti e il Working Tax Credit nel Regno Unito).

L’adozione di schemi analoghi nel nostro paese renderebbe più conveniente l’occupazione soprattutto per le donne sposate  con bassa qualifica e basso reddito, tra le quali minore è la partecipazione al mercato del lavoro.

Vi è un ulteriore fronte su cui il Paese è ancora arretrato, quello culturale. Gli aspetti culturali incidono sulla persistenza degli stereotipi, particolarmente radicati nei confronti delle donne “in carriera”, alimentati dai modelli proposti dai media. Occorre intervenire su ciò che costruisce la cultura dei giovani: i media (l’immagine che viene data del mondo femminile) e la scuola (l’inclusione nei curricula delle figure femminili importanti, l’attenzione alle questioni di genere e agli stereotipi); sulla cultura dei “padri” nella famiglia (ad esempio attraverso i congedi di paternità). Gli stereotipi fanno parte di una cultura d’azienda desueta; non consentono il pieno sviluppo della competizione interna e l’affermazione del merito; limitano l’efficace impiego di tutte le risorse e sono dunque nocivi all’economia. Gli stereotipi sono doppiamente negativi, escludono le donne e aumentano l’autoesclusione. Si può incidere sugli stereotipi intervenendo  sui meccanismi che valorizzano la meritocrazia; sulle pressioni di mercato che impongono alle imprese e agli altri attori dell’economia un utilizzo efficiente delle risorse, la “messa in campo” del migliore capitale umano disponibile, senza distinzione di genere. 

Il Ministero che oggi ci ospita  ha avviato una serie di iniziative, nell’ambito delle proprie competenze, per rimuovere alcuni degli ostacoli  che ancora oggi in Italia, più che altrove, si frappongono ad un più adeguato utilizzo delle risorse femminili; sono iniziative apprezzabili. Ma per conseguire risultati più rapidi e duraturi  ritengo che tutti, in qualità di regolatori dei mercati, di attori su quei mercati, di datori di lavoro, di educatori, di cittadini dobbiamo contribuire alla valorizzazione dei talenti femminili.

Fonte: http://www.etribuna.com/eportale/tutti-gli-articoli-del-portale/15557-le-donne-italiane-incontrano-la-cina-diritti-sviluppo-empowerment-femminile-anna-maria-tarantola-vice-direttore-generale-di-bankitalia-.html