Politiche di genere

Il femminismo può creare un ponte tra donne di classi sociali diverse? L’Italia, rispetto ad altri paesi europei, mostra una situazione polarizzata: sono di più, rispetto agli uomini, sia le donne single che ricevono esclusivamente redditi da capitale, sia le single che sopravvivono grazie a trasferimenti familiari o statali. Ma interessi di classe e genere in alcuni casi possono corrispondere.

In un recente dibattito online, alcune economiste americane si sono domandate se il femminismo abbia difficoltà a occuparsi di classi sociali (Does feminism have a class problem?). Il dibattito riguardava in primis i conflitti di classe tra donne, ma più in generale ci si domandava se il femminismo fosse in grado di creare un ponte tra le istanze di donne di classi sociali diverse – donne con bassi redditi, donne della classe media che costituiscono negli Stati Uniti più della metà dei percettori del salario minimo, e donne dell’alta borghesia che combattono per abbattere il soffitto di cristallo che blocca le loro carriere  – al fine di definire un’agenda economica che possa servire gli interessi di tutte le donne. In questo articolo si vuole dare un contributo in questa direzione, andando ad analizzare la struttura di classe in Europa (e in particolare in Italia) usando una prospettiva di genere.

L’iniziativa della Google indiana si chiama gCareer ed è rivolta alle donne che abbiano lasciato una carriera da un anno e più, per ragioni personali. Ragioni che non sono difficili da indovinare, e che di solito consistono in una maternità che si prolunga e che finisce col sacrificare il lavoro alla famiglia. Eppure, le donne in carriera che si ritirano rappresentano un ‘giacimento’ di competenze da sfruttare, e l’iniziativa della Google ha senso non solo dal punto di vista della promozione di genere ma anche del business. 

Donne ai posti di comando per dare forza a una classe dirigente più moderna. Libera da vecchi codici e vecchi club, capace — nel suo insieme — di trasformare il Paese. In Italia si sta definendo la mappa di un nuovo potere femminile. La stanno disegnando quel 31 per cento di deputate e senatrici in Parlamento dal 2013, le otto ministre su 16 al governo, le capolista alle elezioni europee. E ancora: le manager nominate ai vertici delle società quotate in Borsa, le alte funzionarie di alcune aziende pubbliche strategiche, le 5 rettrici (su 78, pochissime) alla guida di università influenti. La svolta c’è. È in corso. Ma è a questo punto che vogliamo chiederci: lungo le direttrici di questa svolta ritroveremo anche le nostre strade comuni? Questa mappa è, o promette di essere presto, lo specchio di un cambiamento diffuso e coerente?

Donne e teoremi, due universi paralleli e inconciliabili? Dopo il post sul pregiudizio che rende ardua la carriera delle scienziate – pregiudizio misurato e spiegato dall’economista Luigi Zingales in una ricerca di rilievo internazionale – pubblichiamo ora l’intervista a Elisabetta Strickland, professoressa di Algebra all’Università di Roma Tor Vergata e vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica. Il pregiudizio contro le donne scienziate è davvero così forte?

«I dati europei dicono che più del 50% dei laureati in materie scientifiche è donna ma quando si passa alla fase successiva la situazione cambia bruscamente: nella fascia dei ricercatori assunti solo il 30% sono donne. Ai livelli superiori, poi, il profilo di carriera diventa drammatico: nelle università italiane – ma è un dato comune in Europa – solo il 16,5% dei professori di ruolo sono donne, in tutte le materie scientifiche. Scarseggiano soprattutto in ingegneria e fisica. Va meglio in matematica, ancora di più in biologia e chimica. Ma in generale nelle scienze dure le donne sono davvero poche