Bombassei: l'Italia torni a essere un Paese accogliente per l'industria
Il Kilometro è rosso - così si chiama l'avveniristico parco industriale che fiancheggia l'autostrada Milano-Venezia all'altezza di Bergamo e ospita la sede della Brembo - i conti dell'azienda sono in nero brillante, nel senso che l'utile dell'ultimo trimestre è quasi raddoppiato, superando i 20 milioni di euro, ma l'umore di Alberto Bombassei, patron e presidente dell'azienda che fa frenare mezzo mondo, vira verso il grigio scuro. «Vent'anni fa - spiega Bombassei - potevamo competere su alcuni prodotti con un valore aggiunto dato dalla tecnologia. Produrre in Italia era possibile. Ma in questo periodo i margini si sono erosi: non rispetto alle produzioni cinesi o indiane, ma a quelle dei concorrenti europei. E in Italia, secondo Paese manifatturiero in Europa, nessuno sembra rendersi conto che oggi delocalizzare per molti produttori diventa una necessità. Una necessità che la larghissima maggioranza degli imprenditori italiani vorrebbe evitare con tutte le proprie forze, ma che è quasi sempre una scelta imprescindibile per continuare a stare sul mercato».
La vostra è una multinazionale all'italiana: leader nei freni a disco per le grandi marche di auto e moto, fatturato oltre 1,2 miliardi, Germania primo mercato, presenza internazionale diffusa. Come si passa dalle valli bergamasche agli stabilimenti cinesi?
«Per necessità, direi. È per necessità che abbiamo fatto la scelta, fin dall'inizio, di internazionalizzarci. Con i nostri prodotti che sono sempre stati nell'alto di gamma abbiamo dovuto seguire i grandi produttori automobilistici anche all'estero, specie in Germania. E lavorando sul mercato tedesco abbiamo capito che il nostro mercato è il mondo; una constatazione che oggi è valida per tutti quanti. Così siamo diventati molto più esigenti sui nostri prodotti, mettendo a frutto le richieste di mercati che ci chiedevano l'eccellenza. Dalla Germania siamo passati alla Gran Bretagna, poi agli Stati Uniti. Adesso produciamo in dodici nazioni, dal Messico alla Croazia. In Cina, dove siamo da quattordici anni, abbiamo due stabilimenti».
Ma secondo lei quale è il vostro valore aggiunto?
«Noi italiani abbiamo nel Dna la capacità di fare cose funzionali e belle. Pensi alla famosa pinza dei freni rossa, che è diventata un po' il nostro simbolo. Ha conquistato un riconoscimento come il Compasso d'Oro, ma il nostro progettista che l'ha disegnata non solo non ambiva al prestigioso premio ma forse non ne conosceva neanche l'esistenza. E oggi, su mercati come quello cinese, si vendono copripinze rossi di plastica con il nostro nome. Dei falsi, proprio come se producessimo borse o occhiali. In fondo è un riconoscimento della forza del marchio!».
La meccanica come la moda...
«Ovviamente non solo. E' fondamentale avere grandi prestazioni, usando materiali nuovi, lavorare su una ricerca esasperata per superare gli standard di mercato. Anche quando eravamo molto più piccoli la ricerca e sviluppo è stata sempre una priorità. E poi conta anche la dimensione: anche quando eravamo piccoli non ho mai pensato che quella fosse la dimensione ideale. Per i grandi produttori con cui lavoriamo è più facile dialogare con grandi aziende».
La crisi vi ha toccato nel 2009, colpendo utile e fatturato. Poi vi siete ripresi, anche se la redditività non è più quella degli anni d'oro. Adesso preannunciate risultati in crescita per il 2012, anche grazie ai nuovi investimenti nell'Est Europa. Come vi hanno cambiato gli ultimi anni?
«Noi produciamo tradizionalmente per marchi come Porsche, Ferrari, Bmw o Mercedes. Ma per fortuna la qualità dei nostri sistemi frenanti ci viene richiesta ormai anche per modelli che non sono solo il top di gamma. Senza dimenticare che moto come Ducati e Harley Davidson e molti veicoli commerciali montano oggi i nostri prodotti, E poi abbiamo allargato molto il mercato dei componenti del freno: oltre ai dischi di cui oggi siamo leader al mondo con 40 milioni di pezzi, e alle pinze, produciamo tutti gli altri componenti del sistema frenante».
Qual è la sua personale classifica degli ostacoli per chi investe in Italia?
«Come per tutti i problemi complessi anche le cause sono complesse, non ce n'è una sola da individuare. Ai primi posti metterei, insieme ad altre componenti, anche il costo del lavoro. Il differenziale che c'era tra la nostra mano d'opera e quella tedesca si è andato rapidamente annullando negli ultimi anni. Con serietà e in anticipo, imprenditori e sindacati tedeschi, hanno lavorato sulla produttività. Da noi, una parte del sindacato non ha compreso che capitale e lavoro hanno oggi più che mai obiettivi comuni».
Non vorrà dire che i metalmeccanici italiani guadagnano quanto quelli bavaresi?
«No, non parlo di buste paga ma di costo del lavoro, ossia il salario più le tasse. Anzi considerati gli indicatori di produttività i nostri operai costano spesso di più. Noi, ad esempio, abbiamo dovuto spostare alcune produzioni in Polonia, perché in Italia non erano più competitive. Costi più bassi dell'energia, del lavoro e del trasporto ci hanno consentito di aggiudicarci commesse che avremmo sicuramente perso».
La Germania, però, in questi anni ha fatto grandi investimenti sulla produttività. Non le pare che voi industriali italiani abbiate investito poco?
«Per alcuni è vero. Ma anche questo è un aspetto che si potrebbe incentivare, come si fa in tanti altri Stati. E poi in generale il sistema-Paese in Italia costa di più, con servizi mediocri, rispetto a tanti altri concorrenti».
Proseguiamo con la classifica.
«Dopo il costo del lavoro vedo di sicuro l'alto costo dell'energia, che pesa non solo sulle imprese metalmeccaniche, e le difficoltà della logistica e della burocrazia. Ma, le ripeto, è l'insieme di fattori penalizzanti che rende difficile produrre in Italia».
Impossibile attrarre nuovi investitori, insomma?
«Direi che il primo obiettivo dovrebbe essere che le multinazionali oggi presenti nel nostro paese non se ne vadano. Oggi è davvero difficile produrre da noi ed esportare nel mondo. Le faccio ancora l' esempio del nostro stabilimento in Polonia: il costo del lavoro è il 30 per cento in meno di quello italiano, l'energia costa meno, i primi investimenti erano in esenzione fiscale e oggi abbiamo altri tipi di incentivi. Ecco, questa è la competizione che l'Italia, come sistema, deve affrontare. E questa è la ragione per cui il Paese sta cambiando faccia».
In che senso?
«Guardi solo le cronache delle ultime settimane: un'eccellenza della cantieristica come Ferretti che va ai cinesi, l'Audi che compra la Ducati. E' vero, sono solo tasselli di un sistema, ma se da un mosaico levi troppi tasselli poi non lo riconosci davvero più. Stamattina ho ricevuto il rappresentante di un fondo che mi portava i dossier su tre nomi celebri dell'industria italiana, imprenditori che hanno deciso di vendere perché non hanno più voglia di lottare. Vedo diminuire ogni giorno, di fronte agli ostacoli, la voglia di imprenditorialità che ha spinto l'Italia. E attenzione, perché quando le imprese chiudono spesso è troppo tardi per rimediare».
Soluzioni, visto che i conti pubblici non permettono certo di largheggiare?
«Intanto sarebbe necessario che si agisse a livello nazionale, ad esempio riducendo il cuneo fiscale che spinge il costo del lavoro. E poi si dice sempre che in Europa c'è un deficit di politica. Lo penso anch'io, ma ritengo che l'Europa dovrebbe essere unità anche come condizioni per le imprese: dal fisco alle tariffe dei servizi».
Il suo giudizio sul governo Monti?
«Si sta muovendo bene. Di sicuro, rispetto al passato, è un esecutivo più autorevole e anche più rigoroso nell'affrontare i problemi. Sulle pensioni, e le parlo di un settore dove negli ultimi anni non si sono contati i cambi di direzione e le estenuanti trattative, ha fatto un buon lavoro. Così come per la spending rewiew, provvedimento che Confindustria chiedeva inascoltata da anni. Avrei voluto vedere la stessa rapidità e determinazione nel decidere anche sulla riforma del lavoro, che poteva essere certamente meglio. Ma il giudizio complessivo non può che essere positivo».
Lei ha perso sul filo di lana la gara per la guida di Confindustria. Il suo avversario Giorgio Squinzi, oggi presidente degli industriali, pare non perdere occasione per bacchettare il governo. La sua opinione?
«Non ho più incarichi in Confindustria e da imprenditore posso dire che non è stato il migliore degli esordi. Avrei evitato alcuni giudizi sul governo, che non sono condivisi da tanti industriali, importanti e no. E avrei cercato di stare più lontano dalle telecamere. Dobbiamo lavorare in silenzio evitando di innescare dannose polemiche. Ma credo che sia solo una piccola scivolata iniziale e sono sicuro che saprà rappresentarci al meglio. In questo momento dobbiamo sforzarci di conservare un'unità di interpretazione e di azione per il bene del nostro sistema confindustriale, che poi è anche quello del Paese».
Ma Confindustria che ruolo dovrebbe avere oggi, secondo lei?
«Confindustria ha sempre cercato, come è ovvio, di portare gli interessi dell'impresa - nel rispetto dei ruoli - nel mondo della politica, contando anche sulla sua autorevolezza. Adesso però mi pare che l'autorevolezza rischi di appannarsi e si siano un po' confusi i ruoli. Quel che è certo è che Confindustria non può e non deve fare politica».
E sulla concertazione, condivide il giudizio negativo di Monti?
«No, è una delle poche cose su cui non sono d'accordo con lui. Non è la concertazione di per se che è sbagliata. Io ne sono stato uno dei protagonisti e trovo che in passato sia stata molto utile. E' vero però che forse in questa fase non è l'unico mezzo per arrivare a delle soluzioni rapide, richieste da un quadro nazionale e internazionale di estrema urgenza».
Fonte: http://www3.lastampa.it