«Lavoro alle donne, siete i peggiori»
Parla Christine Lagarde: «L’Italia è il Paese che ha fatto meno per incoraggiare le donne al lavoro». E su Renzi: «Ha programmi ambiziosi, ma serve concretezza»
«Quello del nuovo primo ministro Matteo Renzi è un programma molto ambizioso che, se tradotto in provvedimenti e attuato con determinazione, produrrà un significativo miglioramento delle condizioni economiche dell’Italia». In un’intervista esclusiva al «Corriere della Sera», nel suo ufficio di Washington, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, guarda con fiducia agli sforzi del nostro Paese per uscire dalla crisi, misura i grandi progressi fatti dall’Europa negli ultimi due anni — dal rischio del collasso a una modesta ripresa — ma segnala anche i pericoli di quella che chiama lowflation: una condizione di crescita zero (o quasi) dei prezzi che, pur senza sconfinare nella deflazione, può avere effetti negativi su produzione, reddito e posti di lavoro. Contro questo pericolo, parlando ieri agli studenti della scuola di studi internazionali della Johns Hopkins University, aveva sollecitato un intervento della Bce «entro i limiti del suo mandato». Ieri quelle parole hanno provocato una reazione irritata del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi.
Ora i suoi collaboratori si limitano a far notare che la sollecitazione alle autorità monetarie ad agire per evitare il rischio di una prolungata, bassa inflazione, è da tempo la linea del Fondo monetario internazionale.
Ma il direttore del Fondo, tra i cui impegni c’è anche lo sforzo appassionato nel promuovere un maggior ruolo delle donne nella società e nell’economia, ha un messaggio per l’Italia anche su questo fronte: «Il vostro è uno dei Paesi della zona euro che incoraggiano meno la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Un cambiamento di rotta, a parte ogni considerazione di progresso sociale, potrebbe avere effetti benefici sulla produzione di reddito aggiuntivo e, quindi, sull’uscita da un periodo di stagnazione».
Secondo lei il lavoro femminile andrebbe incentivato con agevolazioni fiscali?
«Quantomeno non andrebbe disincentivato. Oggi ci sono molte situazioni di questo tipo in molti sistemi di tassazione. Prenda il Giappone: il premier Abe ha già cambiato rotta. E ha capito che creando una rete di centri per la cura dell’infanzia può aiutare le donne nipponiche a entrare nel mercato del lavoro, dando una spinta a un’economia che viene da anni molto difficili. Un Paese che ha avuto molto successo in questo campo è l’Olanda che ha dato la possibilità di creare lavori flessibili part time senza alcuna restrizione. Anche la Corea si sta muovendo in questa direzione».
Quali elementi apprezza della scommessa di Renzi? E non crede che l’applicazione rigida del tetto del 3 % del deficit da parte di Bruxelles, più i nuovi vincoli che arriveranno nel 2015 col “fiscal compact”, possano compromettere le possibilità di ripresa dell’Italia?
«Considero ambizioso il programma di Renzi perché spazia dal mercato del lavoro alla riforma dei servizi fino al miglioramento di un sistema giudiziario oggi molto lento. Mi pare che la sua sia un’impostazione di politica fiscale che guarda più alla riduzione delle spese che all’aumento delle entrate tributarie, grazie anche agli obiettivi della spending review di Carlo Cottarelli che era con noi a Washington fino a non molto tempo fa. Mentre al Tesoro c’è un altro ex del Fondo: Pier Carlo Padoan. Io allora non c’ero ma l’ho conosciuto a Parigi, nei suoi anni all’Ocse».
E sul tetto del deficit?
«Tocca all’Unione europea decidere su questo, ma chiaramente la cosa importante è che si imbocchi un positivo sentiero di consolidamento fiscale e che il tutto sia poggiato su un solido piano a medio termine che renda credibile il pacchetto di misure varate»
Rispetto al 2011, quando l’Europa sembrava sull’orlo del tracollo, trascinata dalla crisi della Grecia e da quelle che rischiavano di travolgere Spagna e Italia, la situazione è assai migliorata, grazie anche agli interventi della Bce e alla rete di sicurezza stesa dal Fmi. Ma la ripresa è lenta e lei, come ha detto anche ieri, teme i rischi di una «generazione perduta» di giovani che non riescono a entrare stabilmente nel mondo del lavoro.
«I lati positivi certamente non mancano. Lei ha già citato la safety net. Penso anche ai progressi verso un’unione bancaria, al coordinamento delle politiche fiscali dei partner europei e allo stesso fiscal compact. Quello che vediamo è un indubbio rafforzamento dell’Eurozona, delle sue istituzioni e dei suoi strumenti di governo. Finita la recessione, poi, è finalmente tornata la crescita, anche se limitata per ora all’1%. Ma la bassissima inflazione comporta rischi aggiuntivi rendendo ancora più difficile per alcuni Paesi della zona euro migliorare la situazione economica, particolarmente dal punto di vista del debito. Ma anche il cronicizzarsi di una situazione di bassissima inflazione — oggi siamo allo 0,5% in Europa, 0,4 in Italia — è pericoloso. Per questo è necessario un sostegno anche da parte delle banche centrali. Detto questo so bene che le politiche monetarie hanno i loro limiti e sono già state usate ampiamente in Europa, così come so che anche le politiche fiscali hanno i loro limiti. E anche qui i Paesi dell’eurozona hanno già fatto molto. Resta la terza cassetta degli attrezzi: quella delle riforme strutturali, a partire dal mercato del lavoro».
Un esempio da indicare?
«Tra i Paesi con un alto livello di disoccupazione giovanile e con molto lavoro nero, il Messico sta facendo bene nei suoi tentativi di evitare il rischio della generazione perduta. Secondo alcune stime, le riforme che riducono le barriere alle assunzioni dovrebbero consentire di creare 400 mila posti di lavoro in più ogni anno».
Dopo una fase di incertezza, il ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali vive da anni un periodo di forte rilancio. E il Fondo monetario è essenziale nel tentativo di evitare un’ulteriore degenerazione della crisi ucraina. Anche se alcuni analisti sostengono che l’Fmi si sta esponendo troppo oggi sull’Ucraina, così come ieri sulla Grecia.
«Abbiamo agito con tempestività, mandando un team fin dal 10 marzo a monitorare la situazione a Kiev. I nostri tecnici hanno aggiornato il quadro che era stato fatto recentemente e hanno avviato il negoziato con le autorità locali. Ci siamo presi dei rischi? Certo: il nostro mestiere è prestare denaro e quando lo fai assumi sempre qualche rischio. Loro li hanno minimizzati accettando una serie di impegni. L’Ucraina ora deve compiere delle azioni per mostrare la determinazione a implementare il programma. Noi controlleremo periodicamente la situazione e l’adempimento delle riforme prima di fornire i finanziamenti a ogni revisione del programma».
Un importante ruolo anche geopolitico, molto apprezzato anche dagli Usa che cercano di frenare l’aggressività russa. Eppure gli Stati Uniti sono l’unico Paese che non ha ancora ratificato la riforma dell’Fmi, con l’aumento del peso dei Paesi emergenti. Una riforma varata nell’ormai lontano 2010. Un blocco che vi impedisce di operare sulla base di quel nuovo assetto: pensa di prendere qualche iniziativa nei confronti del governo di Washington e del Congresso che non ratifica la riforma, in questi giorni di vigilia dei meeting primaverili del Fondo e della Banca Mondiale?
«Non posso sostituirmi all’Amministrazione Usa che, peraltro, ha ribadito il suo impegno per la ratifica. Abbiamo fornito a governo e Parlamento tutte le informazioni e tutti i dati che ci hanno chiesto, sempre in modo tempestivo. Il direttore esecutivo che siede nel “board” del Fondo in rappresentanza degli Usa ha di certo molto peso. Siamo un libro aperto, tutto quello che facciamo è pubblico. Non vedo azioni concrete prima degli spring meetings.
Barack Obama da tempo denuncia i rischi politici e sociali che derivano dalle crescenti sperequazioni nella distribuzione del reddito negli Stati Uniti. La settimana scorsa, durante la sua visita in Vaticano, il presidente americano ha trovato un terreno di discussione comune su questi temi con papa Francesco, che ha espresso le stesse preoccupazioni estese a tutto il mondo. Il Pontefice lo ha fatto in modo ancora più forte e con un linguaggio assai più tagliente. Dove si colloca il Fmi nella delicata discussione sulla redistribuzione del reddito?
Quello delle crescenti diseguaglianze sociali è un problema che ci preoccupa da tempo. Ma ora c’è stata un’accelerazione determinata da due fattori: la tecnologia che ha accelerato e incrementato la polarizzazione dei redditi e il recente apprezzamento dei valori di molti “asset” finanziari: un fenomeno che fa prosperare il mercato dei capitali. L’Fmi recentemente ha compiuto due ricerche su questi nodi. Cercando di semplificare analisi in realtà molto complesse, direi che i nostri studi arrivano a due conclusioni. Primo: le diseguaglianze dei redditi non favoriscono una crescita sostenibile. Secondo: l’idea che la redistribuzione del reddito non contribuisce a sostenere le economie è con ogni probabilità infondata. Certo, poi non tutti i metodi di redistribuzione sono accettabili: bisogna concentrarsi su quelli efficienti e ben calibrati»
Fonte: Corriere della Sera