Il più grande innovatore della storia è stato Thomas Alva Edison, inventore della lampadina; segue Steve Jobs, numero uno dell’informatica; terzo Alexander Bell, noto per aver rubato l’idea del telefono ad Antonio Meucci. Lo rivela una ricerca del Mit pubblicata un paio di settimane fa. Se non vogliamo crogiolarci nella sindrome di Meucci (la malattia di chi dice che noi siamo bravi, ma ci rubano le idee), per uscire dalla classifica europea degli innovatori moderati e sbarcare nell’Olimpo dei leader innovativi, dobbiamo darci una mossa. Soprattutto chiarendo che cosa significa innovazione. Innovare si può anche senza nuove tecnologie. Non è solo una questione di hardware e software. L'innovazione è anche sociale, organizzativa, relazionale, finanziaria. Le tecnologie aiutano ma non sono tutto. Come rilevano i parametri del rapporto sul Quadro di valutazione dell'Europa dell'Innovazione 2014, ciò che conta sono le persone, la qualità del capitale umano e un ambiente fecondo. Negli studi sui maggiori gruppi creativi, molti italiani, oltre alla qualità dei talenti, un ruolo determinante è il gruppo, fare squadra.

L'innovazione non è il lampo di un individuo geniale, Leonardo o Archimede che sia, è il prodotto di un team, in cui opera un leader carismatico e riconosciuto. Ma ciò che conta è l'esistenza di un ecosistema, capace di attrarre e trattenere le migliori risorse. Nella geografia mondiale dell'innovazione, persone e ambiente sono decisivi: luoghi che attirano teste pensanti, creativi, talenti, la cui presenza è moltiplicatore di successo e innovazione. Certo, servono risorse e investimenti economici, e una solida rete di venture capital, ma non sono tutto: contano le idee. E' la determinazione che viene dalle nuove grandi aree creative, a partire dalla Silicon Valley e dalla sua storia, per passare alle nuove fabbriche globali della conoscenza dell'Asia. Perchè in Italia, nonostante gli sgravi fiscali e le agevolazioni per la casa, il programma Controesodo per il rientro in Patria dei cervelli fuggiti all'estero è stato un mezzo flop e ha attirato poche centinaia di talenti di ritorno? Evidentemente il nostro Paese è ritenuto una comparsa non del tutto affidabile, anzichè una calamita protagonista di nuovi flussi creativi. Eppure molti cervelli italiani hanno trovato fuori dai nostri confini ambienti favorevoli e sono diventati primattori dell'innovazione.

I motori dell'innovazione futura sono Internet e informatica, software, ricerca e sviluppo, advanced manufactoring, automazione, robotica, bioscienze e cercano nuove figure professionali, senza dimenticare i nuovi artigiani digitali che hanno innestato tradizione e tecnologie. L'Europa ha uno spread di 800mila informatici di qualità, che non si trovano. Ma scienze e tecnologie non sono gli unici driver dell'innovazione. Lo sono anche l'entertainment, il marketing, il design, il cibo e la qualità della vita, che forse ci sono più congeniali. L'innovazione è conoscenza e chiama in causa il sistema formativo. L'istruzione è il vero motore del cambiamento, ma è poco apprezzata, coccolata e sostenuta nel nostro Paese.

Nelle aree metropolitane creative le Università sono fucine di competenze e brevetti. Infine, non bisogna dimenticare che innovazione fa rima con occupazione. Alla faccia dei profeti di sventura, l'innovazione crea posti di lavoro diretti e un indotto virtuoso: ogni occupato del settore innovativo ne crea altri tre nell'intera economia.

Qui la sindrome da superare è la paura di fallire. Negli Stati Uniti o in Corea chi sbaglia si rialza e viene aiutato a ripartire: in Italia resta con lo stigma indelebile e non ha più voglia di osare.

Fonte: La Stampa