L'eccellenza italiana? Per l'Unione Europea si trova in tre regioni
Piemonte, Friuli Venezia-Giulia ed Emilia Romagna vanno controcorrente e si avvicinano alle migliori aree del Continente. Lo dice la Classifica UE dell'Innovazione che considera, in generale, il nostro Paese allo stesso livello di Grecia e Portogallo.
Il mondo è dei piccoli, dice una vecchia massima consolatrice. Probabilmente, è smentita un giorno sì e uno no dalla vita reale. Ma almeno in un caso, è vera: nella gara per l’innovazione e il progresso tecnologico fra i 28 Stati che fanno parte dell’Unione Europea, anche nei Paesi che arrancano più faticosamente, ci sono angoli di territorio che galoppano e «tirano la volata», per dirla in termini ciclistici. Nell’Italia dalle prestazioni alquanto mediocri, per esempio, tre singole regioni vanno controcorrente, si staccano da tutte le altre avvicinandosi ai migliori livelli del Continente: sono il Piemonte, il Friuli-Venezia Giulia, l’Emilia-Romagna. E qualche motivo, naturalmente, c’è. Detto in due parole: rispetto ad altre nostre regioni, queste tre hanno più cittadini con una laurea o un diploma di studi superiori, le loro imprese investono di più nella ricerca e nello sviluppo, producono più richieste di brevetti industriali e così via. Tutto ciò lo spiega la «Classifica Ue dell’innovazione» appena pubblicata dalla Commissione europea, e cioè dagli analisti che fanno capo al commissario Ue all’Industria e all’imprenditoria, Antonio Tajani. I Paesi vi sono divisi in quattro gruppi distinti, a seconda del loro grado di progresso tecnologico: «leader dell’innovazione» (Danimarca, Finlandia, Germania, Svezia), tutti nettamente al di sopra del livello medio europeo; «seguaci dell’innovazione» (Austria, Belgio, Francia e altri) con livelli di progresso superiori o vicini alla media europea; «innovatori moderati» (Italia, Grecia, Portogallo, Malta e così via), tutti «ben al di sotto della media Ue» (così dice testualmente il rapporto); e infine gli ultimi, solo tre, i «modesti innovatori» (Bulgaria, Lettonia, Romania).
In questa classifica, la prestazione dell’Italia è dunque piuttosto mediocre. Ma dentro la graduatoria nazionale, per ogni Paese c’è poi quella più interna delle singole regioni. E qui, le posizioni si ribaltano: mentre l’Italia-Paese è al terzo di 4 livelli («innovatori moderati»), le sue tre regioni-gioiello sono più in alto, al secondo («seguaci dell’innovazione»): così sono infatti classificate Piemonte, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna. Mentre nella fascia superiore delle «leader regionali dell’innovazione», dove la Germania si presenta con ben 10 esempi interni, l’Italia schiera un rotondissimo «zero». E nella fascia delle «seguaci» è sì superata dall’Olanda (10), dalla Gran Bretagna (10) o dalla Francia (6) ma è alla pari con la Norvegia extra Ue (3) e supera la Spagna (2) o la Finlandia (2). La Commissione europea ricorda che il livello generale di istruzione, la disponibilità di finanziamenti, il «clima» favorevole alla ricerca e la diffusione dei collegamenti digitali a banda larga sono dei potenti motori di traino per l’innovazione. Ma ci sono anche la destinazione e l’uso dei finanziamenti Ue, vale a dire dei fondi strutturali erogati da Bruxelles: dal 2007 al 2013 la Danimarca ha usato oltre il 30% dei fondi Ue per la ricerca scientifico-tecnologica e quasi il 40% per l’innovazione del business, cioè per l’applicazione diretta della stessa ricerca alle attività imprenditoriali; l’Italia ha usato il 18% dei fondi strutturali «generali» per la ricerca, e il 10% per la sua applicazione al «business» (ma non molto meglio ha fatto la Germania: 20% e 9%). Torniamo alle singole regioni. Come si accennava, un fattore importante di successo sta nel grado di assorbimento dei fondi strutturali Ue destinati specificamente alla «ricerca, sviluppo tecnologico, innovazione»: potremmo chiamarli fondi «vincolati», non «generali», e dunque meno manovrabili dai singoli governi.
Proprio qui, si trova una spiegazione dei successi di Piemonte, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna: dal 2007 al 2013, sono arrivate ad assorbire dall’80% al 100% dei fondi per la ricerca, mentre — per esempio — Sicilia e Calabria oscillavano fra il 26% e il 50%: «È interessante notare», rileva la Commissione europea, «come nel 2007-2013 le regioni del Nord Italia abbiano mostrato un tasso altissimo di assorbimento» di questi finanziamenti.Poi, naturalmente, c’è il ruolo di ogni Stato nei confronti della «sua» regione: quanto è generoso o avaro, quanto sa indirizzare la sua vocazione economica, sociale, perfino culturale in certe direzioni piuttosto che in altre. E questo ruolo ha un sicuro «termometro» di misurazione: la percentuale di prodotto interno lordo, di Pil, investita nel settore ricerca e sviluppo delle imprese. In Svizzera, fuori dalla Ue, ma anche nella Baviera tedesca, questa percentuale supera il 120% della media europea. In Sicilia, Calabria, Sardegna, Puglia, non arriva al 50% della stessa media. In Emilia-Romagna sta fra il 50% e il 90%. In Piemonte, fra il 90% e il 120%: un dato vicinissimo a quello della Germania.Ancora più decisiva, perché indice di spirito imprenditoriale ancora pronto alle sfide nonostante tutte le crisi, è la percentuale di piccole e medie imprese che rischiano e investono sull’innovazione «in casa», si muovono cioé senza aspettare impulsi o aiuti dall’esterno. Qui, l’Italia è nelle prime posizioni e le sue tre regioni-gioiello fra le primissime: le loro piccole e medie imprese che si sono già incamminate su questa strada, o i capitali da esse investiti, rappresentano il 120% della media europea. Come si diceva all’inizio: il mondo è dei piccoli, almeno una volta tanto.