Non potevamo diventare giudici o poliziotte. Se c'era di mezzo l'onore, un femminicidio restava impunito. Non accadeva nel Medioevo, ma pochi decenni fa. Per conquistare diritti che oggi ci sembrano elementari, ci sono volute battaglie lunghe e difficili. Che non vogliamo dimenticare.

Se le nostre madri, le nostre nonne si sposavano o facevano figli, perdevano il lavoro. E se il marito le lasciava, non potevano risposarsi, ma diventavano reiette per tutta la vita. Persino ucciderle non era così grave, se c'era in ballo l'onore. Queste donne, che oggi hanno i capelli bianchi, non potevano decidere della loro maternità. Non potevano diventare giudici, poliziotte, diplomatiche: troppo labili per via del ciclo mestruale. Così era scritto nelle leggi fasciste e inciso nella mentalità dell'epoca. Oggi ci sembra incredibile, ma è questa la cultura che ci è toccato sconfìggere, con battaglie civili durate decenni. Il punto di svolta? Gli Anni 70 e le lotte del femminismo. In cinquantanni, guardandoci indietro, scopriamo quanta strada abbiamo fatto, quanti pregiudizi, quante ingiustizie ci è toccato abbattere. Il libro "Le leggi delle donne che hanno cambiato l'Italia", voluto dalla Fondazione Nilde lotti, ce lo ricorda. Marina Sereni, vicepresidente della Camera, lo ha consegnato alle giovani deputate del Parlamento come fosse il testimone da tramandare alle nuove donne della politica: «Andate avanti, adesso tocca a voi», è il messaggio della Sereni alle colleghe. «Questo volumetto raccoglie il frutto di un lungo lavoro, paziente e trasversale, delle donne italiane. Grazie a tante nostre conquiste, spesso frutto di una difficile e sofferta mediazione, si sono evoluti la società e il costume. Andando a rileggere una per una le leggi di mezzo secolo, ricostruiamo lo sviluppo del nostro Paese e la sua rivoluzione femminile». Ne abbiamo scelte dieci, pietre miliari del nostro cammino verso la parità. Le commenta per noi la sociologa Chiara Saraceno.

Vietato licenziare le lavoratrici che si sposano grazie alla legge 9 del 1963
«Finalmente si applicò l'articolo 37 della Costituzione che stabilisce la parità fra lavoratrici e lavoratori. Nei fatti, è la prima legge organica sui congedi di maternità estesi a tutte le dipendenti. Anche se i datori di lavoro si inventarono subito le "dimissioni in bianco": al momento dell'assunzione fanno firmare una lettera di dimissioni senza data, da usare quando vogliono. Magari in caso di maternità. La legge 9 ha abrogato la norma fascista secondo la quale le donne potevano essere licenziate se si sposavano e, di conseguenza, se avevano figli: dal 1963 in poi matrimonio e maternità non sono più stati causa legittima di licenziamento. È stata una conquista dall'alto valore simbolico, ma non ha eliminato le discriminazioni. Anche oggi, infatti, esistono le dimissioni in bianco e il mobbing sulle lavoratrici che rientrano dopo la maternità».  
 
Le donne hanno accesso alle professioni degli uffici pubblici. Lo dice la legge 66 del 1963
«Una svolta epocale. Fino all'emanazione di questa legge, le donne non potevano svolgere alcuni lavori, erano escluse dai pubblici uffici e da alcune professioni. Per esempio, non
potevano entrare in magistratura. Questa legge, anche se importantissima perché permise alle donne di accedere ai tribunali, non aprì loro tutte le strade del pubblico impiego e delle professioni in genere: bisogna aspettare il 1981 per vederle nella Polizia, il 1999 perché entrino nelle Forze armate. Solo più tardi si apriranno le porte della carriera diplomatica, ma ancora oggi le ambasciatrici sono pochissime. Questa legge del 1963 abbatte una discriminazione direi medievale: prima di questa conquista le donne potevano essere giudicate, ma non potevano giudicare, non essendo ammesse neppure nelle giurie popolari. Era un vulnus enorme al principio di eguaglianza in uno Stato dove la magistratura è il terzo potere, dal quale, appunto, erano tenute fuori le donne. Ed era così praticamente per tutte le cariche importanti del pubblico impiego: non si poteva essere direttore generale di un ministero o diventare prefetto. Oggi, in teoria, si può. Ma quante ragioniere dello Stato abbiamo visto in questi 50 anni?».
 
Si può divorziare. Lo stabilisce la legge 898 del 1970
«Quando è stata emanata, all'apparenza sembrava una legge che indeboliva le donne perché una delle conseguenze dell'instabilità coniugale è l'impoverimento di mogli e figli: erano poche le donne sposate che lavoravano, le altre erano molto vulnerabili. La battaglia per il divorzio ha fatto prevalere il desiderio di libertà sulle ragioni economiche. Prima della
legalizzazione del divorzio esisteva la separazione: una donna sposata, ma separata, viveva discriminazioni insopportabili, era una svergognata, non poteva risposarsi, condannata a essere considerata libertina, rovinafamiglie o a restare sola. Il divorzio consentì alle donne di potersi rifare una vita, acquisendo uno status giuridico. Una legge piena di compromessi, con il suo doppio livello giuridico fra separazione e divorzio e un iter lunghissimo (cinque anni). Per migliorarla a favore delle donne bisogna aspettare il 1975 con la Riforma del diritto
di famiglia. Basti pensare che prima una donna non poteva riconoscere un figlio avuto fuori dal matrimonio. Una cosa davvero allucinante: si negava addirittura il principio che la madre è sempre certa».
 
Le novità introdotte dalla Riforma del diritto di famiglia del 1975
«Bisognava normare le separazioni in modo più paritario. Il tradimento del marito, a meno che fosse plateale, non era considerato causa di separazione. Al contrario, bastava 
anche solo il sospetto che la moglie fosse stata infedele. Con questa riforma, la disparità scompare perché viene sancita l'uguaglianza dei coniugi, eliminando la figura del capofamiglia e introducendo la comunione dei beni come normale forma di rapporto economico fra marito e moglie. Questa legge ha raccolto istanze femministe: far sì che venisse in qualche modo
riconosciuto il lavoro non pagato delle mogli, affermando il principio che al benessere della famiglia si concorre in due.  Una conquista molto importante».
 
Nel 1978 viene legalizzato l'aborto e vengono introdotte tutele sociali per la maternità (legge 194)
«Fino a questo momento era in vigore l'articolo 553 del codice penale che puniva chi incitava a pratiche contro la procreazione: i ginecologi non potevano neppure informare le donne sui mezzi anticoncezionali. L'aborto era illegale, ma le donne abortivano: chi poteva permetterselo andava a fare i cosiddetti raschiamenti nelle cllniche private, la maggior parte finiva dalle mammane, rischiando spesso la vita. Il movimento delle donne si spaccò fra chi chiedeva la legalizzazione e chi la depenalizzazione. Legalizzare l'aborto significava praticarlo nelle strutture pubbliche, con regole precise. Passò questa linea: nacque la legge 194 e fu abrogato l'articolo 553 del codice penale. Probabilmente è la legge più importante del cammino femminile, perché da alle donne un potere esclusivo: quello di decidere da sole sulla propria maternità, un fatto che le riguarda in prima persona. La procreazione mette in campo l'interesse della madre, quello del padre e quello del bambino, ma non sullo stesso piano, perché questo conflitto si gioca sul corpo della donna. E l'unica legge che riconosce alla donna una priorità e rovescia un'asimmetria, dandole l'ultima parola. La donna non è un contenitore né un corpo che l'uomo ha a disposizione per diventare padre».
 
Nel 1981, grazie alla legge 442, viene abolito il delitto d'onore
«Una vittoria femminista: la donna si ribellò all'idea di dover rappresentare l'onore di un uomo. Fino all'entrata in vigore di questa legge, al marito, padre, fratello che uccideva per onore veniva riconosciuta un'attenuante fortissima: l'assassino usciva prestissimo di prigione e, soprattutto, non subiva disonore, ma addirittura riabilitava lo status della propria
dignità. Basta riguardare il film di Pietro Germi Divorzio all'italiana per cogliere il clima dell'Italia di quegli anni».
 
La legge 40 del 2004 introduce norme sulla procreazione medicalmente assistita
«Un passo indietro, una legge orrenda che considera le donne come puri contenitori: vieta di congelare gli embrioni e la diagnosi preimpianto; si possono creare un massimo di tre embrioni per un unico impianto. Se una coppia ha problemi di sterilità, con questa legge la donna perde ogni diritto di scelta. Per fortuna, negli anni successivi alcune sue parti sono state smantellate. In particolare, una sentenza della Corte Costituzionale del 2009 ha stabilito in sostanza che il medico può decidere caso per caso come intervenire. Resta, però, il
divieto alla cosiddetta fecondazione etcrologa, per la quale moltissime coppie vanno all'estero».
 
Nel 2009 lo stalking diventa reato (legge 38)
«È stato importante definire reati le forme di violenze psicologiche che le donne subiscono da parte degli uomini, nella maggioranza dei casi mariti, compagni, ex fidanzati. Molte situazioni di violenza domestica e persino di femminicidi sono preceduti da stalking. Questa legge è certamente uno strumento in più».
 
Quote rosa, ovvero più donne nei consigli d'amministrazione (legge 120 del 2011)
«Più che di quote rosa, parlerei di "riduzione del monopolio blu". Questa legge è una norma antimonopolistica che apre non solo la carriera verticistica delle donne, ma riporta la meritocrazia e le competenze al centro dei percorsi professionali. Sarà sempre più difficile che, accanto a donne di valore, possano sedere uomini inetti, lì solo per logiche politiche. Il secondo beneficio della 120 è l'ampio effetto, l'onda lunga che porterà: per poter preparare donne pronte a sedere nei consigli di amministrazione, che oggi sono pochissime, bisogna aprire le camere femminili, quindi l'effetto positivo è su tutto il percorso lavorativo. Una legge che ha un grande potenziale».
 
Giro di vite sulla violenza contro le donne e misure urgenti per contrastare i femminicidi grazie alla legge 93 del 2013
«E una legge positiva, anche se più simbolica che dalla portata effettiva perché lascia le donne ancora sole, forti esclusivamente del loro coraggio. I miei dubbi più grandi riguardano l'irrevocabilità della querela, poiché ciò può indurre una donna a non avere il coraggio di denunciare il partner violento: non sono state messe in campo reti di protezione e non sono stati stanziati fondi per dare davvero un aiuto concreto e assistenza alle donne che si ribellano. Inoltre, credo che l'aggravante di pena all'uomo che ha usato violenza davanti ai figli sia ingiusta: picchiare una donna è grave in sé, non diventa peggiore se agita davanti ai minori. Sarebbe come affermare che, una volta. andati a letto i bambini, alzare le mani sulla moglie sia meno grave».