Le nomine degli amministratori delegati (ad) delle aziende pubbliche sembrano complessivamente delle buone nomine: sono leader con risultati comprovati e in metà dei casi si tratta di manager provenienti dall’interno che, per aziende che non hanno problemi, è una buona regola.

Più controversa sembra essere la nomina delle presidenti, secondo la rigida applicazione di una quota di 50-50, dove gli uomini fanno gli ad e le donne le presidenti. Senza entrare nel merito della qualità delle prescelte , un messaggio è emerso però ben chiaro «dato che da sempre in Italia i presidenti contano poco (e quindi devono essere pagati poco) e le nomine importanti sono quelle degli ad, le donne fanno i presidenti e gli uomini gli ad».

Chi scrive è stato uno dei primi promotori 10 anni fa, in tempi non sospetti, di «azioni positive» per avere più donne nei consigli di amministrazione (cda) delle aziende italiane quotate. Ma il modo più efficace per migliorare il governo delle aziende italiane grazie a più donne capaci nei loro cda non è quello di paracadutarle dall’alto in ruoli percepiti come di poco peso, ma quello di sviluppare «dal basso» una nuova generazione di eccellenti donne manager che poi crescano in posizioni apicali, tra cui ci saranno anche i ruoli di membri dei consigli e di presidente.

La prima sfida per le presidenti testé nominate sarà proprio quella di promuovere una rivoluzione all’insegna della meritocrazia nelle loro aziende per fare sorgere al loro interno questa nuova generazione di eccellenti donne leader e fare da esempio nel panorama delle imprese italiane dove le donne al vertice di grandi aziende mancano.

Ma c’è una seconda sfida altrettanto importante. Avviare una vera rivoluzione nel processo di nomina dei cda delle aziende pubbliche quotate, che porti alla fine a un grande rafforzamento del ruolo dei presidenti e dei loro cda. Chi scrive siede nei cda di aziende non italiane quotate alla borsa di Londra e di New York. In esse il presidente è un leader di grande peso, vigila sull’operato dell’ad che può licenziare se necessario, entra nel merito della «salute strategica» dell’azienda, consiglia l’ad e lo aiuta. Tutto ciò sempre senza violare il sacro principio che l’unico responsabile dei risultati è l’ad, che se va bene alla fine viene riconfermato , e se va male viene cambiato. Per fare questo il presidente sceglie con cura gli altri consiglieri che devono essere di primissimo livello e lavora con loro. È un lavoro che richiede grandi doti di leadership, esperienza profonda del mondo delle aziende e della loro strategia e grande capacità di gestire le relazioni umane. E il mercato premia chi lo fa bene e punisce chi lo fa male.

Chi sceglie questo presidente di altissimo profilo? Il cda stesso, non qualcuno dall’esterno. Sì, perché in queste aziende i consiglieri, i presidenti e l’ad non scadono tutti assieme come avviene da noi, ma scadenzati (staggered boards) e quindi si valutano e nominano all’interno dei cda stessi. Ciò avviene nelle situazioni di normale avvicendamento e successione, mentre in caso di cattiva performance o scalata ostile gli azionisti possono anche licenziare l’intero board. In Italia invece, nel caso delle aziende pubbliche, dato che i consiglieri scadono tutti assieme, le scelte vengono lasciate interamente alla politica.

Ecco quindi l’altra sfida per le neo-elette presidenti: fare sì che la loro sia l’ultima nomina fatta con un modo sbagliato, sponsorizzando attivamente un cambiamento del metodo con il quale si sceglieranno i (le) loro successori.

 

Fonte: La 27ma Ora - Roger Abravanel