Troppo poco per le donne
Le donne stanno soffrendo la crisi economica in modo sempre più acuto. I dati della Banca d’Italia mostrano che il reddito è crollato di più tra le famiglie più povere, quelle che si collocano nel primo decile della distribuzione, e tra queste sono prevalenti i nuclei familiari con donne capofamiglia – meno istruite, monoreddito e che risiedono nel Meridione.
I DATI DELLA CRISI
Dall’Istat sappiamo inoltre che la propensione al risparmio delle famiglie continua a diminuire ed è scesa al 12 per cento, raggiungendo il punto più basso dal 1995, mentre il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito dello 0,5 per cento nel 2011.
Questo quadro conferma lo stato di disagio e il ruolo sempre più problematico di ammortizzatore sociale esercitato dalle famiglie, con la quota di giovani nella fascia 15-34 anni che vivono con i genitori che ha raggiunto il 42 per cento.
I dati congiunturali Istat sul mercato del lavoro di marzo indicano che il tasso di occupazione maschile (67,2 per cento) è stabile rispetto a febbraio, mentre quello femminile (46,7 per cento) è in calo. La disoccupazione maschile cresce dello 0,3 per cento, mentre quella femminile del 4 per cento rispetto al mese precedente. Il tasso di disoccupazione dei giovani 15-24enni sale dal 29,8 per cento del quarto trimestre 2010 al 32,6 per cento, con un picco del 49,2 per cento per le giovani donne del Mezzogiorno. Infine, i dati Isfol mostrano che nonostante il sorpasso nei tassi di istruzione, le giovani donne sono sempre più prevalenti nei lavori precari.
Questo quadro conferma lo stato di disagio e il ruolo sempre più problematico di ammortizzatore sociale esercitato dalle famiglie, con la quota di giovani nella fascia 15-34 anni che vivono con i genitori che ha raggiunto il 42 per cento.
I dati congiunturali Istat sul mercato del lavoro di marzo indicano che il tasso di occupazione maschile (67,2 per cento) è stabile rispetto a febbraio, mentre quello femminile (46,7 per cento) è in calo. La disoccupazione maschile cresce dello 0,3 per cento, mentre quella femminile del 4 per cento rispetto al mese precedente. Il tasso di disoccupazione dei giovani 15-24enni sale dal 29,8 per cento del quarto trimestre 2010 al 32,6 per cento, con un picco del 49,2 per cento per le giovani donne del Mezzogiorno. Infine, i dati Isfol mostrano che nonostante il sorpasso nei tassi di istruzione, le giovani donne sono sempre più prevalenti nei lavori precari.
LE DONNE E LA RIFORMA DEL LAVORO
In questa situazione di enorme difficoltà e discriminazione, la riforma del mercato del lavoro non dedica abbastanza spazio a tutelare le donne, riconoscere il peso del loro ruolo familiare e incentivare una loro maggiore presenza sul mercato del lavoro.
Questa situazione non può infatti che peggiorare nel breve periodo. Le recenti misure economiche stanno spingendo molti comuni a tagliare i servizi pubblici, come asili nido, scuole a tempo pieno, assistenza agli anziani e disabili. Inoltre in assenza di politiche per la crescita, la disoccupazione dei giovani che vivono in famiglia imporrà ancora più lavoro alle donne anziane che, con la nuova età pensionabile, dovranno conciliare lavoro e famiglia per un numero maggiore di anni.
Come è possibile che in queste condizioni le donne possano mantenere o aumentare la loro partecipazione al mercato del lavoro e contribuire così a redditi familiari erosi dalla crisi?
Nella riforma, gli interventi che hanno specifica attenzione alle donne, pur andando nella giusta direzione, sono limitati e insufficienti da molti punti di vista. Discutiamo qui quelli più rilevanti per le famiglie con figli piccoli.
Questa situazione non può infatti che peggiorare nel breve periodo. Le recenti misure economiche stanno spingendo molti comuni a tagliare i servizi pubblici, come asili nido, scuole a tempo pieno, assistenza agli anziani e disabili. Inoltre in assenza di politiche per la crescita, la disoccupazione dei giovani che vivono in famiglia imporrà ancora più lavoro alle donne anziane che, con la nuova età pensionabile, dovranno conciliare lavoro e famiglia per un numero maggiore di anni.
Come è possibile che in queste condizioni le donne possano mantenere o aumentare la loro partecipazione al mercato del lavoro e contribuire così a redditi familiari erosi dalla crisi?
Nella riforma, gli interventi che hanno specifica attenzione alle donne, pur andando nella giusta direzione, sono limitati e insufficienti da molti punti di vista. Discutiamo qui quelli più rilevanti per le famiglie con figli piccoli.
I CONGEDI PARENTALI
Un primo intervento riguarda i congedi. Nell’ottobre del 2010 il Parlamento europeo ha approvato una legge per proteggere le donne dal licenziamento a causa della maternità e garantire anche ai padri almeno due settimane di congedo obbligatorio.
La riforma introduce congedi di paternità obbligatori di tre giorni (anche consecutivi!). La proposta va nella direzione giusta, ma è decisamente troppo limitata.
Il congedo di paternità è presente in quasi tutti gli Stati europei per periodi di diversa durata: dai due giorni della Spagna alle due settimane della Francia. Le “quote azzurre”, sia nel congedo obbligatorio che in quello facoltativo, devono essere una misura che possa contribuire a cambiare l’esperienza dei padri, ridurre le asimmetrie nella coppia e difendere la continuità delle carriere femminili, al di là dei messaggi simbolici.
Per quanto riguarda i congedi parentali, come abbiamo proposto altrove, una strada importante sarebbe quella di incentivare congedi part-time per ambedue i genitori, sull’esempio della Svezia e Norvegia. (1) In questo modo si ridistribuiscono su ambedue i genitori i costi dei figli sulle carriere lavorative. Se il congedo obbligatorio e quello parentale saranno più condivisi da ambedue i genitori, ci saranno meno perdite di capitale umano e meno ragioni per le imprese di discriminare le lavoratrici nei loro percorsi di carriera.
La riforma introduce congedi di paternità obbligatori di tre giorni (anche consecutivi!). La proposta va nella direzione giusta, ma è decisamente troppo limitata.
Il congedo di paternità è presente in quasi tutti gli Stati europei per periodi di diversa durata: dai due giorni della Spagna alle due settimane della Francia. Le “quote azzurre”, sia nel congedo obbligatorio che in quello facoltativo, devono essere una misura che possa contribuire a cambiare l’esperienza dei padri, ridurre le asimmetrie nella coppia e difendere la continuità delle carriere femminili, al di là dei messaggi simbolici.
Per quanto riguarda i congedi parentali, come abbiamo proposto altrove, una strada importante sarebbe quella di incentivare congedi part-time per ambedue i genitori, sull’esempio della Svezia e Norvegia. (1) In questo modo si ridistribuiscono su ambedue i genitori i costi dei figli sulle carriere lavorative. Se il congedo obbligatorio e quello parentale saranno più condivisi da ambedue i genitori, ci saranno meno perdite di capitale umano e meno ragioni per le imprese di discriminare le lavoratrici nei loro percorsi di carriera.
NIDI E VOUCHER PER LA BABY SITTER
Un secondo intervento proposto nella riforma sono i voucher per l’uso delle baby sitter, intervento utile perché può contribuire a far emergere parte del lavoro di cura sommerso.
Tuttavia, l’intervento non può compensare la diminuzione di offerta di servizi pubblici oggi in atto. I tagli alle spese per gli asili nido implicheranno una minor occupazione (femminile) sia per gli effetti diretti (le educatrici assunte) sia per gli effetti indiretti (più mamme con difficoltà di conciliare famiglia e lavoro), nonché effetti sui risultati cognitivi e non dei bambini stessi, dalla socializzazione per i figli unici agli esiti scolastici ed effetti di lungo periodo. (2)
Per continuare a rispondere alla domanda di nidi delle famiglie, molti comuni stanno decidendo di esternalizzare o privatizzare i servizi. Questa scelta è molto pericolosa perché è una via senza ritorno che implica la perdita di un patrimonio estremamente prezioso accumulato negli anni da insegnanti, pedagogisti, coordinatori, genitori. È necessario pensare a scelte diverse sui modi in cui la già scarsa offerta di nidi viene razionata. Anche se le regole di accesso al nido sono di rado esplicitamente legate al reddito, fra gli aventi diritto sono di più i bambini di famiglie numerose e i figli di madri sole, e quindi una porzione prevalente degli utenti del nido usufruisce di tariffe agevolate, il che ha comportato gravi problemi economici per molti comuni.
Eppure in alcune Regioni, in primo luogo l’Emilia Romagna, i nidi pubblici sono stati salvaguardati con strategie basate su scelte di criteri di accessibilità che danno priorità alle mamme che lavorano (oltre che ad altri) e su una ri-articolazione delle fasce di reddito molto ampia, cosicché quasi tutti pagano, nelle fasce più basse molto poco, e nelle nuove fasce più alte una proporzione molto elevata del costo effettivo. Si potrebbero anche re-distribuire i costi tra scuole materne e nidi, incentivando le scuole materne ad aprire sezioni “primavera” per bambini in età 18-36 mesi, pagando parte della retta dei bimbi. Questa strada è stata seguita dal varie Regioni, tra cui il Veneto, con importanti risultati in termini di numero dei bambini coinvolti e di qualità del servizio.
Tuttavia, l’intervento non può compensare la diminuzione di offerta di servizi pubblici oggi in atto. I tagli alle spese per gli asili nido implicheranno una minor occupazione (femminile) sia per gli effetti diretti (le educatrici assunte) sia per gli effetti indiretti (più mamme con difficoltà di conciliare famiglia e lavoro), nonché effetti sui risultati cognitivi e non dei bambini stessi, dalla socializzazione per i figli unici agli esiti scolastici ed effetti di lungo periodo. (2)
Per continuare a rispondere alla domanda di nidi delle famiglie, molti comuni stanno decidendo di esternalizzare o privatizzare i servizi. Questa scelta è molto pericolosa perché è una via senza ritorno che implica la perdita di un patrimonio estremamente prezioso accumulato negli anni da insegnanti, pedagogisti, coordinatori, genitori. È necessario pensare a scelte diverse sui modi in cui la già scarsa offerta di nidi viene razionata. Anche se le regole di accesso al nido sono di rado esplicitamente legate al reddito, fra gli aventi diritto sono di più i bambini di famiglie numerose e i figli di madri sole, e quindi una porzione prevalente degli utenti del nido usufruisce di tariffe agevolate, il che ha comportato gravi problemi economici per molti comuni.
Eppure in alcune Regioni, in primo luogo l’Emilia Romagna, i nidi pubblici sono stati salvaguardati con strategie basate su scelte di criteri di accessibilità che danno priorità alle mamme che lavorano (oltre che ad altri) e su una ri-articolazione delle fasce di reddito molto ampia, cosicché quasi tutti pagano, nelle fasce più basse molto poco, e nelle nuove fasce più alte una proporzione molto elevata del costo effettivo. Si potrebbero anche re-distribuire i costi tra scuole materne e nidi, incentivando le scuole materne ad aprire sezioni “primavera” per bambini in età 18-36 mesi, pagando parte della retta dei bimbi. Questa strada è stata seguita dal varie Regioni, tra cui il Veneto, con importanti risultati in termini di numero dei bambini coinvolti e di qualità del servizio.
CONGEDI AI NONNI
Altre proposte arrivano dal ministero della Famiglia e hanno l’obiettivo di rendere i congedi usufruibili per un periodo più lungo (fino ai 18 anni) e più flessibili. Inoltre, dato che tra i giovani genitori sono prevalenti ormai situazioni di lavori precario, il congedo parentale può anche essere preso dai nonni, tra i quali invece è più diffuso il lavoro dipendente. La proposta sembra esacerbare le differenze tra generazioni invece di attutirle dando per scontato che c’è una generazione che non può “permettersi” di prendere i congedi parentali, ma deve delegare questo diritto ai propri genitori. I nonni hanno svolto e svolgono un ruolo importante, ma una maggior “condivisione” con loro della cura dei figli piccoli può contribuire anche alla perpetuazione di modelli e standard di gestione del tempo di lavoro familiare. Dal 2007,anno in cui sono stati fatti significativi investimenti nei servizi pubblici per bambini e anziani, le donne e le famiglie hanno smesso di essere tra le priorità dei governi. Sarebbe auspicabile che obiettivo importante delle riforme del lavoro e del welfare sia quello di ridurre i divari di generazione e genere già così ampi nel nostro paese; e diminuire – non accrescere – la dipendenza dei figli dalla famiglia.
(1) Del Boca D. L. Mencarini, S. Pasqua Valorizzare le donne conviene Il Mulino 2012. Il congedo parentale, così come risulta oggi è dato ai genitori per un periodo complessivo di 10 mesi, che diventano 11 mesi qualora il padre usufruisca di almeno tre mesi di congedo. Oggi solo il 6,9 per cento dei padri prende il congedo parentale nei primi due anni di vita del bambino, ben al di sotto della media europea, che è del 30 per cento (in Svezia 69 per cento e in Finlandia 59 per cento).
(2) Brilli Y., D. Del Boca C. Pronzato “Exploring the impacts of public child care on mothers and children in Italy” Collegio Carlo Alberto 2012.
Fonte: SeNonOraQuando