LA RICERCA I DATI DI CERVED GROUP SULLE AZIENDE CON UN FATTURATO OLTRE I 10 MILIONI.
Nel 90% dei casi la scelta di un nuovo capo ricade su un uomo.

Tanto rumore per nulla. Non si può definire altrimenti ciò che sta accadendo riguardo la presenza femminile ai vertici delle imprese italiane: niente. Spostamenti minimali da un anno all'altro, che mal si conciliano con le tante parole spese sull'argomento. È questa la conclusione cui arriva l'indagine di Cerved Group sulle aziende italiane con più di 10 milioni di fatturato, quotate e non quotate.


«Nonostante l'ampio dibattito sorto attorno al tema delle quote di genere nei consigli d'amministrazione, i dati evidenziano che la presenza delle donne al vertice delle società italiane tende ad aumentare molto lentamente», dice infatti Alessandra Romanò, direttore operativo di Databank, divisione Cerved Group, che ha realizzato l'analisi.

Alla fine del 2010, meno di una impresa su due aveva tra i propri amministratori una donna (46%): «Al ritmo osservato negli ultimi tre anni, bisogna aspettare fino al 2022 perché le imprese miste diventino la maggioranza tra quelle analizzate».
Ma la presenza di donne è solitamente «confinata» nelle aziende minori. Se, infatti, si considerano le imprese più grandi (con oltre 200 milioni di fatturato), solo il 36% ha almeno una donna nel consiglio di amministrazione (cda) e solo il 7,8% ha una presenza di donne che supera il 30%, la soglia cui si deve tendere secondo il progetto di legge in discussione in Parlamento. Complessivamente, ha cda al 30% femminili un quarto del totale delle imprese italiane.

Per le donne è ancor più difficile occupare la poltrona di comando: al 31 dicembre del 2010, solo il 9,3% degli amministratori delegati (o delle figure di vertice) delle imprese esaminate erano donne (+0,1% rispetto al 2009).
La bassa presenza femminile - sottolinea il Cerved - non è esclusivamente un'eredità del passato: anche se si ferma l'attenzione sulle sole aziende che hanno visto un cambio al vertice tra il 2009 e il 2010 (circa 4 mila), la scelta del nuovo capo è quasi sempre ricaduta su un uomo (nel 90% dei casi); in particolare, tra le società che erano a guida maschile, il timone è passato a una donna nel 7,9% dei casi. Solamente una parte del fenomeno è generazionale: tra le aziende che hanno cambiato amministratore delegato è meno frequente trovare una donna quando l'impresa ha puntato su un capo «esperto» (solo l'8% dei nuovi top manager che hanno superato i 45 anni sono donne). Ma anche quando il nuovo amministratore delegato è un «giovane» (meno di 35 anni) il gap rimane significativo: sono donne il 29% dei nuovi top manager under 35, nonostante le statistiche recenti evidenzino il maggior numero di laureati tra le 25-34enni piuttosto che tra i loro coetanei maschi.

Insomma, niente di nuovo. Ma il nodo dov'è? «È nel bacino cui si può attingere», spiega Romanò. Troppo poche donne lavorano e, tra coloro che lavorano, sono troppo poche quelle che riescono a raggiungere la cosiddetta «prima linea», il «serbatoio» del vertice di un'azienda. «Le dirigenti sono addirittura diminuite nel corso del 2010: erano 128 mila nel 2009 e un anno dopo erano 115 mila». Sono evidentemente scese più dei colleghi uomini, visto che il loro peso percentuale sul totale dirigenti si è ridotto dal 27,5 al 26,9%.

Le libere professioniste alla fine del 2010 erano il 29% del totale. In compenso le donne sono la maggioranza tra gli impiegati, dove sfiorano il 60%. Spesso, lì si fermano. Perché mettono su famiglia, perché diventano madri, perché i servizi che aiutano la conciliazione non ci sono, perché, come ha detto di recente l'Ocse nel suo rapporto sulle politiche familiari, «il problema dell'Italia è che il lavoro retribuito è in contrasto con l'avere figli, mentre il lavoro dei genitori è una chiave per ridurre la povertà», perché ci sono ancora molti stereotipi da superare. Ecco, il punto, dov'è.
 

 

Fonte: corriere.it