In Italia le donne continuano a essere il pilastro delle rete informale e dell'assistenza e cura, a essere retribuite meno degli uomini e discriminate quando stanno per diventare madri. A fotografare la situazione del Paese nel 2010 è il Rapporto Annuale dell'Istat.

Per l'Istituto diretto da Enrico Giovannini, la catena di solidarietà femminile tra madri e figlie su cui si è fondata la rete di aiuto informale, rischia di spezzarsi. Le donne occupate con figli sono infatti sovraccariche per il lavoro di cura all'interno della famiglia e le nonne sono sempre più schiacciate tra cura dei nipoti, dei genitori anziani non autosufficienti e dei figli adulti.

 

 

Quasi la metà dei bambini e dei ragazzi fino a 13 anni è infatti affidato almeno una volta a settimana ad adulti quando non è con i genitori o a scuola. In tre casi su quattro si tratta dei nonni, e in particolare delle nonne. E' comunque in crescita il numero di bambini che vanno al nido, sebbene rimanga basso il tasso di frequenza (15%). Nel 77% dei casi la madre è occupata e nel 38,7% il bambino frequenta un nido privato.

 

 

La partecipazione delle italiane al mercato del lavoro continua a essere molto più bassa in Italia rispetto al resto d’Europa. Nel 2010 il tasso di occupazione femminile si è attestato al 46,1%, 12 punti percentuali in meno di quello medio europeo. L’indicatore è al 55,6% per le madri (68,2 il corrispondente tasso europeo). Quando il minore ha un’età compresa tra i sei e i dodici anni il tasso di occupazione è pari rispettivamente al 55,8 e al 71,4%.

 

 

Inoltre, peggiora la qualità del lavoro e rimane la disparità salariale rispetto ai colleghi uomini (-20%): a retribuzione netta mensile delle lavoratrici dipendenti è in media di 1.077 euro contro i 1.377 euro dei colleghi uomini. Il divario si dimezza considerando i soli impieghi a tempo pieno (rispettivamente, 1.257 e 1.411 euro).

 

 

Un fattore di peggioramento è dato anche dalla crescita del part time (+104 mila unità rispetto a un anno prima), ''quasi interamente involontaria e concentrata nei comparti di attivita' tradizionali'' (commercio, ristorazione, servizi alle famiglie e alla persona) che presentano orari di lavoro poco adatti alla conciliazione con i tempi di vita.

 

 

Un altro indicatore del ''peggioramento della qualità del lavoro femminile - spiega l'Istat - riguarda la crescita delle donne sovraistruite, ovvero quelle con un lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto a quella posseduta''. Fra le laureate, il fenomeno della sovraistruzione interessa il 40% delle occupate (31% tra gli uomini) e abbraccia tutto il ciclo della vita lavorativa.

 

 

Ben 800.000 donne, con l'arrivo di un figlio, sono state poi costrette a lasciare il lavoro, perché licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere. Un fenomeno che colpisce più le giovani generazioni rispetto alle vecchie e che appare particolarmente critico nel Mezzogiorno, dove ''pressoché la totalità delle interruzioni può ricondursi alle dimissioni forzate''.

 

 

Nel 2008-2009, si legge nel documento, circa 800.000 madri hanno dichiarato che nel corso della loro vita lavorativa sono state messe in condizione di doversi dimettere in occasione o a seguito di una gravidanza. Si tratta dell'8,7% delle madri che lavorano o hanno lavorato in passato e che sono state costrette dalle aziende a lasciare il lavoro, magari firmando al momento dell'assunzione delle 'dimissioni in bianco'. A subire più spesso questo trattamento, si legge nel rapporto, non sono le donne delle generazioni più anziane ma le più giovani, 6,8% contro 13,1%, le residenti nel Mezzogiorno (10,5%) e le donne con titoli di studio basso (10,4%). Una volta lascito il lavoro solo il 40,7% ha poi ripreso l'attività, con delle forti differenze nel paese: su 100 donne licenziate o indotte a dimettersi riprendono al lavorare 15 nel Nord e 23 nel Sud.

 

 

Il ruolo fondamentale all'interno della famiglia, svolto dalle donne, coondiziona fortemente la possibilità di lavorare. Per una donna, avere un’occupazione e dei figli continua a tradursi in un sovraccarico di lavoro di cura, mentre per gli uomini il coinvolgimento nel lavoro familiare mostra una contenuta progressione nell’arco degli ultimi venti anni, soprattutto per quello orientato alla cura dei figli.

Per far fronte alla difficoltà di conciliare il lavoro e la famiglia (circa i tre quarti del lavoro familiare delle coppie è appannaggio della donna), confermando una tendenza documentata a partire dalla fine degli anni Ottanta, le lavoratrici riducono il tempo dedicato al lavoro familiare, operandone una redistribuzione interna, diminuendo l’impegno nei servizi domestici e dedicando più tempo ai figli. Al crescere dell’età della donna le differenze di genere nei carichi di lavoro familiare si acuiscono ulteriormente. Anche in età anziana, quando si potrebbero creare i presupposti per una maggiore condivisione del lavoro familiare per effetto dell’uscita dal mercato del lavoro di entrambi i partner, le differenze di genere restano forti e sostanzialmente stabili nel tempo: in altri termini, concluso l’impegno per il lavoro retribuito, gli uomini vanno in pensione, dedicandosi quasi a tempo pieno ai propri interessi, mentre le donne continuano a occuparsi del partner, della casa e degli altri membri della famiglia.