Tempo di crisi, tempo di coworking
Per trovarsi, per scambiarsi le idee, per pensare, per progettare, per inventare, insomma per lavorare c’è bisogno di un covo. Anzi: di un cowo.
Incrociate un ufficio tradizionale e il telelavoro e potrebbe nascere qualcosa di simile al coworking; in definizione quasi da enciclopedia: «Luogo in cui diversi gruppi di persone, che non necessariamente operano nello stesso settore o allo stesso progetto, lavorano condividendo lo spazio e le risorse di un normale ufficio come la connessione a internet, le attrezzature e il caffè».
Ma se dite a uno degli abitanti di questa «fabbrica» così particolare che il posto in cui stanno è "soltanto" un luogo dove si lavora insieme, ognuno svolgendo in modo autonomo la sua professione, è facile che insorgano a suon di metafore: «Il coworking è uno Spazio di Schengen ante litteram. Il coworking è come un bosco, una foresta in cui moltissime specie diverse fra loro prosperano, coesistono e si adattano in modo spontaneo, in un ecosistema favorevole alla vita: ognuna rimane indipendente ma rafforzata dal sistema di relazioni da cui è circondata»... E ancora: il coworking è software, è network, è community, e via inglesizzando.
Non è facile, del resto, accontentare gli entusiasti teorici – anzi gli «innovatori visionari» – che insieme a Riccardo Valentino hanno appena raccolto il corposissimo primo saggio sul fenomeno come si è sviluppato nel nostro Paese: Coworking progress. Il futuro è arrivato (Nomos edizioni), presentato di recente all’assessorato allo Sviluppo economico del Comune di Milano.
La prima idea, narrano gli annali e anche questo libro, venne a Los Angeles a un certo Bred Neuberg, che nel 2005 «prese un locale all’801 di Minnesota Street, lo riempì di mobili Ikea e disse: "Ecco le postazioni, qui c’è quello che occorre per un ufficio, chi vuole lo può affittare. Questo posto si chiama Hat Factory"».
Ma se poi qualcuno veniva a cercare semplicemente un tavolo per appoggiarci il proprio portatile e lavorare come in qualunque ufficio, lui si arrabbiava forte: «Non voleva affittare solo una scrivania. Voleva porre in vicinanza persone che condividessero la passione per l’attività che svolgevano, per l’innovazione, per un lavoro che amavano e per il quale volevano trovare uno spazio». Perché nel coworking «quello che conta sono le persone, tutto dipende dalla loro energia e dalla loro iniziativa».
E questa forma di «biodiversità professionale» non ha tardato ad attecchire e prendere dimora anche nel Belpaese, crescendo rigogliosa e varia da Pordenone a Lecce. Precursore riconosciuto è il pubblicitario Massimo Carraro, che nel 2008 insieme alla socia Laura Coppola ha importato la proposta a Milano e oggi coordina una specie di franchising targato "Cowo" che ha figliato ben 77 spazi in 46 città della Penisola.
Ma oltre all’intervistatissimo Carraro, sono ormai numerose le esperienze autonome, le reinterpretazioni originali del coworking: da "Toolbox" di Torino, che dispone addirittura di 3000 mq compresa cucina e stanza relax con ping pong, al "Talent Garden", che da Brescia si è esteso a Milano, Bergamo, Padova specializzandosi nel digitale e nella comunicazione e prevede di aprire presto in un’altra decina di sedi italiane; dal fiorentino "Multiverso", 40 postazioni di lavoro dedicate soprattutto a formazione, web editoria, mostre ed altri eventi, alla rete internazionale "The Hub", presente ormai in 7 città del Belpaese; dal "Co.Ra" di Sovico (Mb), il primo a riunire sotto un unico tetto anche le competenze artistiche, tra gli altri, di un pianista, un pittore e uno scultore, i quali ne approfittano per proporre spesso eventi culturali, al "Cowocheconta" di Milano (specializzato invece nelle più «aride» materie fiscali ed economiche); dal piccolo "Studio Quarta" di Lecce, che grazie al suo impianto fotovoltaico può definirsi «coworking ecosostenibile», al "Cowomodo" di Pordenone, che in due anni ha generato tre aziende, al "Lab121" che ad Alessandria punta molto sui corsi di formazione e di aggiornamento per i soci, al "PianoC" di Milano, pronto a offrire servizi di condivisione di spazi a donne con bambini...
Davanti a tanta varietà, anche il settore pubblico non è rimasto inerte. Nel volume sono raccolte le testimonianze della Provincia di Lucca, che ha promosso un bando per l’apertura di coworking mirati soprattutto all’imprenditoria femminile; quella della Camera di commercio di Ferrara (la quale ha appena messo a disposizione dei fondi per giovani aspiranti coworkers); quella del Comune di Milano: dove si è creato un albo di 40 luoghi per il lavoro condiviso, in modo da facilitare la ricerca ai potenziali utenti. Ma su tutte spicca la storia straordinaria di Veglio: un comunello di 600 abitanti nel Biellese che, per evitare la fuga dei giovani, ha riattato alcuni locali municipali allestendo 5 postazioni di lavoro a bassissimo prezzo; il progetto, inaugurato concretamente nell’aprile scorso, ha anche vinto un concorso internazionale.
Riccardo Valentino li intervista tutti, alla ricerca dei valori comuni dell’esperienza; ed i vantaggi non tardano ad affiorare tra i neologismi inglesi. I fablab, per esempio, sono i preferiti per le cosiddettestart up, ovvero le nuove micro-imprese: con scarsissimo investimento logistico, chiunque può tentare la sua strada, senza impegnarsi troppo se dovesse andar male.
Ma le scrivanie in affitto sono appetite anche dai sempre più numerosi nomad workers, il popolo dei consulenti a partita Iva abituati a spostarsi da un luogo all’altro, dove li chiama il mercato, con tutto il loro mondo racchiuso in un portatile. Ancora: gli hub permettono di essere liberi senza restare isolati, anzi uno dei vantaggi è poter godere della consulenza di altri coworker o addirittura di far nascere collaborazioni per nuovi business.
Incubatoi e/o laboratori. Tuttavia attenti: «Il coworking, giurano gli esperti, è uno strumento molto potente per creare sinergie lavorative che vanno oltre il mero risparmio dei costi. Considerarlo solo un affare economico significa snaturare la sua essenza. Di certo si diventa ricchi di relazioni, di cooperazioni, si instaurano collaborazioni prima di allora impensate, si creano sinergie tra professionalità completamente diverse tra loro e, a volte, nascono delle belle amicizie». Di questi tempi, è un effetto collaterale di non poco conto.
Fonte: Avvenire