Nella prassi le ragioni del mancato decollo del telelavoro
Un profondo ripensamento della normativa riferita al telelavoro, da utilizzarsi quale leva di produttività per l’azienda e di soddisfazione per il dipendente, ormai si impone: nel post Una legge per lo Smart Working abbiamo dato conto di come il legislatore si sta muovendo per cercare di trovare nuove soluzioni. Un contributo alla riflessione in atto viene oggi da Lavinia Serrani, research fellow di Adapt: quello che occorre è un sistema di contrattazione collettiva di tipo promozionale, incentivante per le aziende e per il lavoratore.
Lo studio incrociato della teoria e della prassi del telelavoro in Italia, permette di rilevare le ragioni concrete del mancato decollo dell’istituto nel nostro paese.
Dalla suddetta analisi, a livello prettamente giuridico, è emerso come uno dei principali problemi risieda nel fatto di non aver saputo cogliere l’essenza giuridica del telelavoro, spesso declinato e disciplinato, tanto nella teoria quanto nella prassi, come una qualunque tipologia contrattuale destinata ad essere inapplicata, e non invece come una nuova forma di organizzazione del lavoro, da utilizzarsi quale leva di produttività per l’azienda e di soddisfazione per il dipendente.
Se il telelavoro è una modalità nuova di organizzazione del lavoro, è evidente che applicare ad esso le stesse regole degli altri contratti, non comporta uno sviluppo vero e reale della fattispecie. La ragione, dunque, per cui gli operatori – le aziende in particolare – ritengono che la normativa – sia essa legislativa o contrattuale – sia ormai inadeguata, è perché parifica una modalità di lavoro che si svolge attraverso l’uso delle tecnologie, in mobilità, a distanza, ad una qualunque altra forma di lavoro, e la disciplina in termini difensivi, per evitare che il lavoratore venga meno tutelato, che vengano pregiudicati i suoi diritti a livello individuale o collettivo.
Non è invece ancora stato costruito un sistema di contrattazione collettiva di tipo promozionale, incentivante, il cui obiettivo non sia semplicemente quello di assimilare e applicare a questa nuova forma di lavoro regole ormai superate, quelle proprie del tradizionale modo di lavorare, dei vecchi sistemi di organizzazione taylorista. Non si è ancora sviluppata una fisionomia nuova, propositiva, che cerchi di adattare quelle regole e di cambiarle.
Prova ne è la circostanza secondo cui, anche a seguito della recente previsione della possibilità di derogare alle norme di legge e di contratto collettivo nazionale contemplata dall’articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011, così come convertito in legge n. 148 del 2011, non risultino allo stato casi di contrattazione collettiva aziendale che abbiano colto questa nuova possibilità, che consentirebbe di adeguare, in termini promozionali e incentivanti, una legislazione risalente agli anni settanta, nello specifico, l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che probabilmente costituisce un freno tra i più significativi allo sviluppo di innovative modalità di utilizzo delle tecnologie in ambito lavorativo e, in particolare, di forme di telelavoro. La banca dati farecontrattazione, che ha monitorato e raccolto la principale contrattazione collettiva in deroga degli ultimi anni, non registra, infatti, accordi e previsioni di questo tipo.
Nella maggior parte dei casi, invece, ci si è limitati a recepire alla lettera quei principi e regole generali fissati a livello europeo i quali, se certamente possono servire da linee guida per la corretta impostazione del fenomeno, non sono tuttavia sufficienti, di per sé, a far penetrare una cultura nuova all’interno del tessuto sociale e imprenditoriale di ciascun paese.
Tale cultura può affermarsi soltanto se le aziende, in primo luogo, inizieranno a scalfire quelmuro di reticenza che sino ad oggi è stato innalzato nei confronti della forma di organizzazione del lavoro che più di ogni altra rappresenta la porta di accesso al nuovo, al lavoro del futuro, al lavoro che si svolge tramite tecnologie sempre più agili, sempre più alla portata di tutti, e utilizzabili da un numero sempre maggiore di categorie professionali (come accade nei modelli più avanzati di social organization).
Non si può più fingere di non rendersi conto di come e quanto sia ormai mutato quello che veniva considerato il modello tradizionale del lavoro, e di quanta importanza possano rivestire quelle innovative forme di lavorare che meglio si attagliano a queste nuove realtà ed esigenze.
È necessario allora che di tale mutamento prenda atto anche il legislatore, innanzitutto rinnovando una disciplina ferma al 1970 – quale è quella del controllo a distanza – scritta e pensata in un momento storico in cui il telelavoro non esisteva neppure in America, e tantomeno poteva immaginarsi che la prestazione lavorativa potesse svolgersi al di fuori dei locali dell’impresa attraverso strumenti e tecnologie potenzialmente in grado di veicolare un controllo a distanza da parte del datore di lavoro.
Non pare dunque più ammissibile che l’espansione del telelavoro venga frenata dalla persistente ostinazione – o inerzia – data dal voler continuare ad applicare regole vecchie a contesti e situazioni nuove. Se il telelavoratore opera a distanza attraverso l’uso delle tecnologie, il telecontrollo non può che essere connaturato allo svolgimento del rapporto, e in quanto tale escluso – perché incompatibile – dal raggio di applicazione del divieto assoluto di cui al comma 1 dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Ciò non vuol dire sottrarre a ogni regola il controllo a distanza nel telelavoro, ma soltanto aggiornare una norma vetusta e non più attuale che, se forzatamente applicata al telelavoro, rischia di disincentivare le imprese ad aprirsi a questa cultura ancora nuova per l’Italia.
Basterebbe dunque chiarire che al telelavoro non si applica, di regola, il divieto di cui al primo comma dell’articolo 4, fermo restando il necessario rispetto di taluni principi, quali, ad esempio, il carattere discontinuo del controllo a distanza sulla prestazione lavorativa, con la possibilità di fissare una soglia massima percentuale – per ipotesi, il 50% – della prestazione contrattuale giornaliera; o il fatto che i controlli debbano risultare palesi al lavoratore interessato ed effettuati con modalità non occulte; o ancora, che le modalità di controllo risultino comunque proporzionate all’obiettivo perseguito.
Lo svecchiamento di tale disciplina, per essere efficace, andrebbe tuttavia accompagnato anche dall’introduzione di una serie di incentivi in favore delle imprese che decidano di sperimentare questa forma di organizzazione del lavoro. Una proposta, ad esempio, potrebbe essere quella di offrire alle aziende una riduzione parziale del premio INAIL in ragione del minor rischio di infortunio derivante dalla mancata effettuazione del tragitto casa-lavoro e viceversa.
L’urgenza di impostare una politica incentivante per tale forma di organizzazione del lavoro, è emersa chiaramente anche dalla lettura dei contratti collettivi – non solo a livello nazionale, ma anche, e spesso soprattutto, a livello aziendale – che ha dimostrato comeancora oggi le imprese nutrano una profonda sfiducia nello strumento. Salvo alcune eccezioni, infatti, la disciplina dei contratti aziendali in materia di telelavoro sembra porsi l’obiettivo di dettare regole tese a ridurre gli spazi di autonomia del dipendente, per il rischio che questi possa approfittarsi dell’opportunità lui concessa. In alcuni casi, si richiede che addirittura le pause coincidano con quelle dei lavoratori che svolgono la propria attività presso la sede dell’impresa.
Non è questa però la filosofia e la ratio alla base del telelavoro, la cui adozione va intesa, piuttosto, come atto di responsabilità individuale, come il primo passo verso un nuovo modo di organizzare e concepire il lavoro, in termini di fiducia e soddisfazione reciproca delle parti, impostando il lavoro in modo cooperativo e partecipativo, e mettendo da parte la logica gerarchica ormai superata del comando e controllo.
Fonte: Il Sole 24 Ore