Perchè il lavoro agile stenta a divenire una prassi comune? In questa puntata di Adaptability prova a sciogliere l'arcano Francesca Sperotti, ADAPT Research Fellow.

È ormai opinione diffusa che il lavoro agile, il lavoro che non richiede una postazione fissa in un ufficio grazie all’uso diffuso delle più moderne tecnologie mobili, sia in grado di generare dei vantaggi a favore di aziende, lavoratori e città.  Le prime sarebbero in grado non solo di migliorare la propria immagine e rafforzare il fattore di engagement e inclusione del proprio personale, ma anche di disporre di un vantaggio economico derivante da una diminuzione dei costi di gestione, locazione e consumo energetico. Per i lavoratori, invece, vi sarebbe una maggiore libertà di scegliere “come, dove e quando” lavorare che, a sua volta, favorirebbe una migliore conciliazione vita-lavoro e un risparmio del tempo normalmente impiegato per raggiungere l’ufficio. Le città ne beneficerebbero in termini di minori livelli di inquinamento atmosferico e del traffico urbano ed extraurbano.

Tuttavia, questo nuovo modo di lavorare fatica a diventare prassi comune.

Accanto a un quadro giuridico che non riesce a seguire i continui cambiamenti del mondo del lavoro – si veda il caso del mancato decollo del telelavoro (L. Serrani, Nella prassi le ragioni del mancato decollo del telelavoro, ADAPTability/5), è possibile individuare almeno due ostacoli che spiegherebbero questo lento passaggio verso un nuovo modo di lavorare – definito Smart Working (si legga Marco Minghetti, Una legge per lo Smart Working: conversazione con Alessia Mosca e Michele Tiraboschi) – che riguarda non solo i mezzi tecnologici, ma anche e soprattutto gli aspetti di natura organizzativa e gestionale.

In primo luogo, lo stereotipo comune secondo cui il lavoro agile sia meno produttivo perché caratterizzato da una serie di difficoltà che renderebbero più difficile la gestione dei lavoratori in modalità virtuale, soprattutto quando si tratta di creare un rapporto di fiducia, generare sinergia, ridurre il senso di isolamento, valorizzare le competenze interpersonali e misurare la performance.

Eppure, come dimostra la recente ricerca della Kean Universityqueste difficoltà sono solo dei miti da sfatare. Nei team virtuali la fiducia, che normalmente si costruisce nell’interazione quotidiana faccia a faccia, scaturisce da una serie di altri elementi quali l’affidabilità, la coerenza e il rispetto delle promesse e degli impegni presi. Similarmente, la sinergia non nascerebbe nelle pause caffè o nelle sale riunioni, ma attraverso una più accentuata collaborazione nella mission, valori, e obiettivi aziendali. Il senso di isolamento può essere superato tramite una comunicazione più fluida e costanti feedback. Le competenze interpersonali sono quelle che hanno un maggior peso nelle relazioni virtuali: aiutano a ridurre le incomprensioni e possibili malumori. Infine, nella società della conoscenza, la performance sarà sempre più valutata sulla base del risultato raggiunto piuttosto che sul tempo impiegato, come ricordato non solo nello slogan «rewarding work not time»  (A. Maitland e P. Thomson, Future Work: How Businesses Can Adapt and Thrive In The New World Of Work,2011) ma anche confermato da uno studio di dati ([1]) (Figura n. 1).

Figura n. 1.

Performance valutata sulla base del risultato conseguito Lavoro agile

Ciò che sarebbe necessario, dunque, è un diverso approccio al lavoro. Superare il modello basato su gerarchia, potere e controllo e abbracciare una cultura del lavoro basata su autonomia, fiducia e responsabilità. L’utilizzo delle nuove tecnologie e la creazione di diverso layout dello spazio fisico del luogo di lavoro, sono condizioni importanti ma non sufficienti per questo “shift”. Elemento essenziale è una cultura aziendaleincentrata sulla fiducia e sull’empowerment, che non sia una semplice iniziativa HR ma una vera e propria strategia aziendale. Non a caso, le migliori prassi in tema di “agile working” si riscontrano in quelle aziende che hanno una cultura di questo genere. Ne è un esempio Unilever, che è stato uno dei primi a lanciare il tema del lavoro agile (si veda Box n. 1).

 

Box n.1 L’Agile Working di Unilever

Si tratta di un progetto sperimentale che Unilever ha lanciato nel 2009 – arrivato in Italia nel 2011 (si veda Unilever, Unilever Italia lancia il progetto “Agile Working”: lavorare in azienda in modo nuovo, 16 giugno 2011) – teso a ridurre del 30% le postazioni di lavoro fisse entro il 2015. Oltre a diminuire gli spazi degli uffici e gli spostamenti per motivi di lavoro, tale progetto si prefigge di aumentare la produttività e incoraggiare un modello di gestione che valuti la performance sulla base dei risultati raggiunti invece che sul tempo impiegato. Il luogo di lavoro agile (agile workplace) di Unilever si focalizza su tre aree – practice (diffondere e praticare il più possibile la nuova modalità di svolgere il lavoro tra collaboratori e dipendenti), facilities (l’introduzione di spazi e ambienti condivisi),technologies (l’uso strumenti tecnologici a supporto della mobilità e dell’ubiquità del lavoro). Trattasi di tre assi su cui può poggiare la nuova esperienza lavorativa. Già nel 2012, l’azienda registrava un miglioramento del 30% nell’uso degli spazi, una riduzione del 60% nei consumi energetici, un innalzamento nel livello di engagement dei dipendenti: l’86% di essi apprezza la nuova riorganizzazione degli spazi, e l’80% riconosceva un incremento nella produttività (si veda Willem Eelman, Agile Working. Driving a cultural transformation at Unilever, 2012).

 

 

Il secondo elemento che rende difficile la diffusione del lavoro agile consiste nella debole collaborazione tra la pluralità di attori che sono necessariamente toccati da questo processo di trasformazioneistituzioni, pubbliche amministrazioni, aziende, e parti sociali. I nuovi modi, agili e flessibili, di svolgere l’attività lavorativa necessitano un lavoro di “rete” sul territorio da parte di tutti di questi soggetti.

 

Sulla base di queste considerazioni, la promozione della Giornata del Lavoro Agile da parte del  Comune di Milano, svoltasi in data 6 febbraio, è da valutare in maniera positiva.Incoraggiando aziende private e pubbliche amministrazioni ad ampliare la possibilità di lavorare ovunque – da casa, dal bar, dal parco, dalla palestra o da una postazione in co-working – e di valutarne i benefici, l’iniziativa ha cercato di superare alcuni deglistereotipi che ruotano intorno al lavoro a distanza. La sperimentazione, cui hanno aderito 40 piccole medie imprese (metà delle quali hanno meno di 10 dipendenti) oltre che 33 aziende con meno di mille dipendenti e 31 aziende con oltre mille dipendenti, ha visto il coinvolgimento di circa 6.000 lavoratori di settori diversi (consulenza, distribuzione e vendita, produzione e distribuzione di tecnologie, produzione alimentare, editoria, finanza, sistema bancario, ricerca e formazione, telecomunicazione, etc.). Tra i lavoratori, il gradimento è stato pari a un indice di 4,7 su una scala da 1 a 5 (senza differenze significative fra uomini e donne), e nel tragitto casa-lavoro ogni lavoratore ha percorso 57 km in meno e ha risparmiato 112 minuti di tempo (si legga Barbara Weisz, Lavoro agile: un modello replicabile di Smart Working, 17 febbraio 2014).

 

Altrettanto positivo è stato il fatto che l’iniziativa sia stata lanciata da un’amministrazione pubblica, e che abbia avuto tra i soggetti aderenti sindacati e associazioni datoriali, un segnale che da una speranza in più alla proposta di legge sullo smart working recentemente inserita nel Jobs Act (si rinvia a Andrea Gatti Casati, Mosca: “Nel jobs act inseriamo anche il telelavoro”).

L’adesione delle parti sociali, in particolare, evidenzia anche il diverso approccio, di tipo promozionale, che le stesse stanno adottando verso un cambiamento che non si può più ignorare. Fino ad oggi, infatti, poche sono le parti sociali hanno abbracciato la filosofia del 2.0 – ne è un esempio la piattaforma Sindacato Networkers  (si veda Box 2) –  mentre in un futuro prossimo, sarà sempre più necessario avere non solo un lavoro e un ambiente di lavoro agile ma anche una “rappresentanza agile”: una rappresentanza che sia presente non solo fisicamente sui luoghi di lavoro ma anche virtualmente. Un campo poco indagato nella letteratura ma che senza dubbio diventerà centrale negli anni a venire.

 

Box n.2. Sindacato Networkers

SindacatoNetworkers.it è un progetto promosso dalla UILTuCS nazionale, la categoria della UIL che si occupa della rappresentanza del terziario, con lo scopo di rinnovare la

rappresentanza dal punto di vista degli strumenti di iniziativa sindacale e dei soggetti da rappresentare. Nello specifico, l’iniziativa si rivolge a tutti i professionisti e ai lavoratori dell’ICT, che sono oggi più di 1 milione, «ma l’auspicio – come afferma Mario Grasso, Community Manager di Sindacato Networkers  – è che tale strumento 2.0 venga a poco a poco adottato da altre sigle sindacali e per una platea più ampia di lavoratori (non necessariamente quelli che lavorano nell’ICT)», a cui offrire una serie di servizi online tra cui consulenza, la formazione, incontro domanda e offerta di lavoro o addirittura la possibilità di indire una sorta di “social strike”, ossia campagne online di sensibilizzazione. L’idea, sempre nelle parole di Mario Grasso «è di avere un sindacato che sia in presenza che in rete».

 

 

Il lavoro agile è solo uno degli aspetti di questo processo di trasformazione che luoghi, orari e modi di lavoro stanno vivendo. Ma una sua sperimentazione può aiutare a rimuovere quegli ostacoli, soprattutto di tipo culturale, che ancora oggi ci impediscono di vivere a pieno le potenzialità di quello che sarà il futuro mondo del lavoro.

Fonte: Il Sole 24 ore