È vero che una donna che lavora fa meno figli? Un’analisi mostra come questa idea sia infondata. Contano i contesti territoriali e le politiche predisposte dai comuni per i servizi all’infanzia. I quali a loro volta rispondono a logiche ben precise. Vediamo quali.

Negli ultimi decenni si sono verificati importanti cambiamenti nel mondo del lavoro e, in senso più ampio, nella società: è andata aumentando l’occupazione femminile e le relazioni tra partner sono andate orientandosi verso modelli famigliari improntati a forme più paritarie di divisione dei compiti tra uomo e donna. Questi cambiamenti avrebbero dovuto essere accompagnati da politiche del lavoro e dei servizi volti a favorire il bilanciamento tra tempi di vita e tempi di lavoro. L’idea del work-life balance nasce dalla ricerca di un equilibrio tra lavoro dentro e fuori la famiglia, tema centrale delle politiche di promozione e sostegno dell’occupazione femminile in Italia e in Europa. Conciliare significa mettere le coppie nelle condizioni di poter prendere delle decisioni in base alle proprie aspettative ed ai propri progetti di vita. Se le politiche della famiglia non sostengono le scelte di lavoro, ne deriverà un impatto sulla povertà e sulla distribuzione dei redditi nel paese. Occorre dunque investire nella valorizzazione e nel sostegno del lavoro femminile, risorsa preziosa per tutta la società.

L'obiettivo di questo lavoro consiste nell’analisi dell’offerta di servizi alla prima infanzia in Italia, attraverso la valutazione di quei fattori che influenzano maggiormente il tasso di copertura degli utenti di questi servizi.  L’Italia ha un livello di fecondità tra i più bassi dei paesi sviluppati, risultato di una progressiva diminuzione delle nascite che è in atto già dalla metà degli anni ‘60. Subito dopo il "baby boom", dal 1965 in poi, è iniziato infatti un periodo di progressivo e rapido declino della fecondità che ha portato l’Italia a toccare il suo minimo storico nel 1996 con 1,2 figli per donna. Solo negli ultimi anni si sta assistendo a una lieve ripresa del tasso di fecondità totale, grazie anche al contributo delle donne straniere.
Nell’analisi dei servizi all’infanzia è necessario tener conto delle differenze territoriali che interessano le diverse aree geografiche del Paese, riconducibili anche a diversi sistemi di welfare territoriale. Ciascun sistema di welfare, infatti, si caratterizza per una diversa capacità di risposta alla domanda di servizi all’infanzia. Per questo motivo, in questo studio si è scelto di considerare le seguenti quattro aree di aree di welfare territoriale: l’Italia rossa (Valle d'Aosta, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche), l’Italiaindustriale (Piemonte, Lombardia, Liguria), l’Italia bianca (Veneto, Friuli Venezia Giulia) e il Centro Sud(Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna).

 

 Figura 1: Correlazione tra il coefficiente di variazione del tasso di copertura degli utenti ed il tasso di copertura degli utenti

Fonte: Elaborazione su dati Istat.

 

 La figura 1 mette in luce le differenze che caratterizzano questi modelli nell’ambito dei servizi all’infanzia con riferimento alla relazione esistente tra il coefficiente di correlazione del tasso di copertura degli utenti dei servizi all’infanzia nei diversi ambiti di ciascuna regione e il corrispondente tasso di copertura regionale. Ciò sta a significare che nelle regioni dove l’offerta di servizi è più scarsa persistono anche maggiori disuguaglianze sul fronte dell’offerta a livello locale; mentre laddove i servizi sono più diffusi lo sono anche in modo più omogeneo e meno diseguale. Sembrerebbero così evidenziarsi due principali modelli di offerta: il modello del Mezzogiorno, più povero sul fronte dell’offerta dei servizi socio-educativi e alla prima infanzia, caratterizzato da forti disuguaglianze e standard qualitativi molto differenziati; il modello più avanzato di alcune regioni del Nord, con un importante settore di servizi, di più elevata qualità ma, soprattutto, improntato a valori di equità sociale (minori disuguaglianze).
In questo lavoro, diretto all’analisi delle caratteristiche che determinano i diversi livelli di copertura degli utenti dei servizi all’infanzia, si è scelto di ricorrere ad un modello multilevel utilizzando i dati Istat relativi alla Rilevazione censuaria su "Interventi e servizi sociali dei Comuni singoli o associati”. Le unità di primo livello considerate nel modello sono gli enti associativi (1); le unità di secondo livello, le regioni di appartenenza. Lo studio ha per oggetto il tasso di copertura degli utenti dei servizi alla prima infanzia, (asili nido e servizi integrativi), operanti nei comuni italiani appartenenti ai 649 enti associativi del territorio. L’obiettivo dello studio è valutare se e come le caratteristiche delle singole regioni influiscano sul tasso di copertura degli utenti degli enti associativi per i servizi per la prima infanzia, tenendo conto dell’effetto dovuto al fatto di appartenere alla stessa regione. 
Le variabili esplicative inserite nel modello a livello di ente associativo sono: la densità abitativa dell’ente associativo, (2) la spesa pro capite per i servizi alla prima infanzia, il tasso di copertura dei servizi per la prima infanzia, il tasso di presenza dei servizi per la prima infanzia. 
L’analisi dei coefficienti delle covariate risultate significative mette in luce che tanto più i comuni sono grandi, maggiori sono le difficoltà a coprire la domanda di servizi all’infanzia. All’aumentare della spesa pro capite per servizi all’infanzia aumenta il tasso di copertura degli utenti dei servizi per la prima infanzia. Lo stesso vale per il tasso di copertura dei servizi: maggiore è il numero di bambini che si trovano in comuni in cui è presente il servizio, più il comune si attiva per offrire il servizio. Infine dove aumenta il numero di comuni con servizi all’infanzia aumenta anche il tasso di copertura degli utenti di tali servizi. Emerge un quadro in cui il tasso di copertura degli utenti dei servizi alla prima infanzia è maggiore dove ci sono più servizi e più bambini, e dove l’investimento è superiore.
La stratificazione del modello in base ai quattro diversi sistemi di welfare territoriali mette in luce una decisa contrapposizione tra il modello dell’Italia dove storicamente vi è stata predominanza del PCI de e quello dell’Italia del Centro-Sud (i ρ rispettivamente al 235 e al 13%). Nell’Italia “rossa” la differenza è data dalla logica dell’investimento che sembra governare la capacità di risposta del sistema ai bisogni della popolazione; al Sud, il sistema dei servizi risente di un numero maggiore di fattori tra loro interagenti.

 

Tabella 1: Modello multilivello sub-nazionale

Fonte: Elaborazione su dati Istat. *Il livello di significatività è per α < 0,05.

 

In conclusione, dall’analisi svolta, emerge che un investimento maggiore comporta una migliore copertura degli utenti dei servizi all’infanzia. A questa condizione corrispondono anche una copertura ed un investimento più diffusi tra gli enti associativi, e quindi una minore disuguaglianza di livelli di investimento e di servizi. Inoltre una minore densità abitativa comporta un innalzamento del tasso di copertura degli utenti dei servizi all’infanzia. I piccoli comuni riescono a soddisfare meglio le esigenze della popolazione rispetto a tali servizi.
Si conferma la contrapposizione tra due diversi modelli di welfare: quello maggiormente avanzato delle regioni “rosse” e quelle meno evoluto del Centro Sud. Nelle prime dove ci sono molte donne che lavorano, nascono più figli, nelle seconde vi è una relazione inversa tra il tasso di occupazione femminile ed il TFT. L’occupazione femminile non è quindi un freno alla fecondità, ma può rappresentare un impulso all’aumento dei servizi di conciliazione dei tempi di lavoro e di famiglia. Occorrono investimenti consistenti per aumentare la disponibilità di asili nido e renderne più omogenea l’offerta sul territorio nazionale, soprattutto al Centro Sud. Bisogna però investire anche nella qualità del servizio affinché esso, (privato o pubblico), mantenga standard qualitativi elevati.

 

  1. Gli enti associativi considerati per l’analisi sono stati classificati in maniera da coprire l’intero panorama dei comuni, essendo non solo quindi esaustivi, ma anche disgiunti, ovvero un comune non può far parte di più ambiti contemporaneamente. La classificazione è creata dall’Istat sulla base degli enti associativi esistenti.

  2. La popolazione totale dell’ente corrisponde alla somma delle popolazioni dei comuni che appartengono all’ente associativo.

 

Fonte: InGenere