Notiziario tematico

In 5 anni passato dal 3,5% al 25% il numero di chi ha fatto richiesta. La legge: bonus di 2 mesi se si congeda anche lui. Stanno con il bebè 7 ore al giorno e le donne tornano prima al lavoro.

A Berlino, il fine settimana, le strade e i parchi si riempiono di giovani famiglie. Padri, madri, bambini, carrozzine e passeggini invadono viali, negozi e giardini pubblici. È una città molto giovane, e questo si sapeva. Ma la differenza arriva dal lunedì al venerdì, quando le stesse famiglie scendono di nuovo in strada. Questa volta, però, con un'eccezione. Ci sono gli stessi bambini, le stesse carrozzine e gli stessi passeggini. E, spesso, gli stessi padri, magari con il biberon in mano. Mancano solo le madri, perché sono in ufficio o in fabbrica a lavorare. 
Impressioni? Coincidenze irripetibili di una città giovane e progressista? Non solo. In tutta la Germania la percentuale dei neopapà che prendono un congedo di paternità è schizzata dal 3,5% del 2007 al 16% del 2009 fino al 25% oggi. Le cifre - riportate in uno studio dell'Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw) e rimbalzate sul quotidiano Berliner Zeitung - sono il risultato di una riforma messa in piedi cinque anni fa dall'allora ministro della Famiglia Ursula von der Leyen, madre di sette figli e oggi ministro del Lavoro. Il sistema lanciato nel 2007 prevede in linea di massima fino a 14 mesi (per figlio) di congedo genitoriale, in cui viene versato fino al 67% dello stipendio a chi accudisce il bambino. Padre o madre che sia, non fa differenza. Anzi, se alla fine è comunque solo la madre a restare a casa, il congedo si blocca al dodicesimo mese. Altrimenti, se anche il padre lascia il lavoro per la cameretta del bebé, allora si arriva ai 14 mesi. Forse è anche per questo - per quei 2 medi di «bonus» se interviene anche il papà - che il congedo medio maschile viaggia proprio tra uno e due mesi. Ma c'è chi (il 14%) va oltre e resta a casa dai tre agli otto mesi.

E' l'estate dei record per le over 45, dalle Olimpiadi alla maternità. E una ricerca conferma: la mezza età non è mai stata così bella.
 
Josefa Idem, 47 anni: "A Londra la stessa sensazione di quando avevo 15 anni: il cronometro non chiede l'età"È l’estate in cui le over 45 passano a un record all’altro, ve ne siete accorti? Josefa Idem, quasi 48 anni, va in finale alle Olimpiadi con la sua canoa. Alessadra Martines taglia il traguardo non meno complicato di una maternità a 49 anni e un amore, l’attore Cyril Descours, che ne ha 20 meno di lei.

Mai state così bene, confermano tutte e due, mai state così bene, in quella che era l’età del tramonto, l’attesa della nonnità, tra uncinetto e gonne longuette. «Mai state così bene» è anche il titolo della ricerca Sda Bocconi- Playtex curata da Maria Carmela Ostilio che racconta la lunga giovinezza delle donne, le loro possibilità dai 45 ai 65 anni, un tempo rubato al tempo, un tempo in cui possono ancora progettare, far carriera, e innamorarsi.

Dice Alessandra Martines: «L’età non incide sulla tenuta di un legame». È in buona compagnia, con Sharon Stone e Martin Mica (lei 54, lui 27) Jennifer Lopez e Casper Smart (lei 43, lui 24), Madonna e Brahim Zabat (lei 54, lui 24). Se un tempo le donne leggevano «Paura dei Cinquanta» di Erica Jong, che dava corpo a una serie di giustificate ansie femminili, oggi forse leggono Robert Browning: «Il meglio deve ancora venire/l’ultima parte della vita/di cui la prima è solo il preludio». Che poi è la tesi di Barbara Straub, divulgatrice scientifica del «New York Times»: «Riorganizzandosi, il cervello maturo trova soluzioni ai problemi più complessi e gestisce le emozioni con maggior calma».

Le guarnizioni dell'impresa bresciana infastidivano la concorrenza straniera. La Corte europea cancella il blocco dell'esportazione. La manager «Dobbiamo presidiare l'Europa».

Nei panni del leggendario Davide stavolta c'è una caparbia imprenditrice padana, Manuela Bonetti. In quelli di Golia il potente ente tedesco di certificazione industriale, la Dvgw. Per sette lunghissimi anni Golia è riuscito a impedire che un'innovazione di prodotto messa a punto dall'azienda italiana potesse entrare sul mercato germanico e mettere in difficoltà i concorrenti locali, che pure partono da una dimensione di business almeno dieci volte quella della Frabo, l'azienda dei Bonetti. Manuela però non è tipo da mollare le battaglie, non ha dato retta a chi le consigliava di allentare la presa perché non avrebbe mai vinto e in questi anni ha fatto ricorso legale ovunque fosse possibile. Fino ad arrivare a interpellare l'Alta Corte di Giustizia del Lussemburgo. L'happy end è datato 12 luglio e con una sentenza lunga 7 pagine, 31 punti e svariati comma l'alto magistrato comunitario Jean Claude Benichot ha dato ragione agli italiani informandone la Dvgw e il governo di Angela Merkel, la Commissione europea e i governi di Praga e Amsterdam (che si erano uniformati al diktat tedesco).

La Frabo è nata nel 1969 a Quinzano d'Oglio
, al confine tra le province di Brescia e Cremona. All'inizio i cinque fratelli Bonetti avevano messo su una fonderia ma via via hanno preferito spostarsi verso un business considerato più remunerativo, quello dei componenti e sistemi per l'industria termo-idraulica. Stiamo parlando comunque di una piccola azienda che fattura 22,5 milioni e metà del giro d'affari lo fa grazie all'export perché i prodotti Frabo nel mondo sono conosciuti e ricercati. Oggi in azienda comandano le donne della seconda generazione Bonetti e grazie a Manuela - subentrata agli zii come amministratore delegato -, l'azienda cremonese ha investito nell'innovazione. Ed è arrivata a mettere a punto nei suoi laboratori una guarnizione-super, tecnicamente un «raccordo a pressare», che serve a mettere in sicurezza le grandi reti che portano il gas e l'acqua.

Ai concorrenti tedeschi
, dopo un iniziale sconcerto, la cosa non è piaciuta tanto e, raccontano a Quinzano, da lì è partita nel 2005 l'azione ostruzionistica della Dgbw, l'ente pubblico-privato (non estraneo a conflitti di interesse) che dovrebbe sovraintendere con giudizio indipendente all'omogeneità degli standard industriali. L'accusa di Bonetti è chiara: i tedeschi hanno attuato una manovra di sbarramento contraria alla filosofia e alla prassi del mercato unico europeo e l'hanno tirata in lungo per mettere in mora gli sforzi commerciali dei piccoli italiani. «Non solo sul mercato tedesco ma anche su quelli dei paesi che orbitano attorno alla loro economia», sottolinea Bonetti.

La lunga rincorsa per avere ragione 
è costata alla piccola Frabo 1,2 milioni di euro in spese legali ma anche stavolta Manuela (55 anni, sposata, attiva nella Confindustria di Cremona) è decisa ad andare fino in fondo e ha già intentato nuove cause per danni presso i tribunali tedeschi. «Il loro sistema appare blindato non solo in patria, la pressione lobbistica che esercitano sugli organismi comunitari è impressionante e noi italiani ovviamente siamo quasi sempre il vaso di coccio». Nei tanti comitati e associazioni che decidono gli standard industriali i tedeschi sono presentissimi e anche questo alla fine giova a rafforzare il mito della loro invincibile industria. «Quando sento - dice Bonetti - che il futuro delle nostre imprese è in Cina mi viene da obiettare che prima di tutto dobbiamo presidiare l'Europa. Non tralasciare niente per far valere le nostre ragioni e quelle del mercato unico. Non è stata forse una battaglia di Mario Monti?».

Prima di vincere con l'Alta Corte la 
Frabo si era presa un'altra bella soddisfazione: un invito a Copenaghen per esporre il loro caso alla conferenza «One Europe, one market», davanti a una platea di commissari europei, ministri, parlamentari e imprenditori. Per una Pmi italiana si è trattato di un riconoscimento clamoroso che evidentemente ha preparato il terreno al successivo intervento della magistratura comunitaria. «Per una piccola azienda ovviamente non è facile partecipare a questi incontri. Noi stessi li vediamo come perdite di tempo perché siamo abituati a lavorare pancia a terra 24 ore su 24, ma è un errore».

Fonte: Corriere della Sera

Lo studio: le «acrobate» che conciliano carriera e famiglia godono di migliore salute fisica e mentale

Mamme al lavoroLe mamme che lavorano a tempo pieno sono più sane e felici. La buona notizia per le «acrobate» che riescono a conciliare carriera e famiglia arriva dai ricercatori statunitensi della Penn State University e dell'ateneo di Akron, che hanno studiato 2.540 donne diventate madri tra il 1978 e il 1995. Quelle che dopo aver avuto un bimbo riprendono subito a lavorare full time, rispetto alle `colleghe´ che abbandonano l'impiego o scelgono il part time, mostrano condizioni di salute migliori sia dal punto di vista fisico che mentale. Sono più in forma, hanno più energia e sono meno a rischio di ammalarsi di depressione.

«Lavorare fa bene», assicura Adrianne French dell'università di Akron, che dal meeting annuale dell'American Sociological Association che si chiude oggi a Denver lancia un appello alle donne che diventano madri: «Non cedete ai compromessi. Non rinunciate alle vostre ambizioni, agli studi e alla carriera». «Il lavoro - spiega l'esperta - migliora la salute fisica e mentale delle donne perché migliora l'autostima e permette di raggiungere degli obiettivi, di mantenere un controllo sulla propria vita e di sentirsi autonome».